Riciclaggio e illecito reimpiego – Reato presupposto – Associazione di tipo mafioso – Ammissibilità – Limiti – Cass. pen., sentenza n. 25633 del 2 luglio 2012.
Non è configurabile il reato ex art. 648 ter c.p. quando la contestazione del reimpiego riguarda denaro beni o utilità, la cui provenienza illecita trova fonte nell’attività costitutiva dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, ed è rivolta ad associato cui quell’attività costitutiva sia concretamente attribuibile.
Con sentenza n. 25633 del 02/07/2012 la Suprema Corte risolve in senso negativo la questione della configurabilità dell’illecito reimpiego – ad opera del capo di un’associazione di tipo mafioso, ex art. 416 bis c.p. – di capitali provenienti dall’attività dell’associazione stessa.
In sostanza, l’associato che reimpiega i capitali illeciti e che tuttavia concorre anche nel reato produttivo della ricchezza, non può essere imputato del reato di cui all’art. 648 ter c.p. in virtù della clausola di esclusione in esso contenuta, dovendo rispondere unicamente del reato associativo.
L’associazione di stampo mafioso, a differenza della fattispecie ‘semplice’ di associazione a delinquere, disciplinata dall’art. 416 c.p., può essere autonomamente produttiva di proventi e redditi che sono del tutto differenti dai proventi o redditi che hanno per fonte il singolo reato fine: mentre nel caso dell’associazione per delinquere semplice il reato presupposto (quello che non consente la configurabilità del concorso di reati) può essere solo il reato fine, nel caso dell’associazione per delinquere di stampo mafioso il reato presupposto può essere costituito non solo dai reati-fine attuati in esecuzione del programma criminoso, ma anche dallo stesso reato associativo di stampo mafioso, ragion per cui non sono ravvisabili ragioni ermeneutiche che consentano di escludere l’operatività della c.d. clausola di riserva “fuori dei casi di concorso nel reato” di cui all’art. 648 ter c.p..
L’impiego di capitali illeciti rappresenta l’ultima fase del ciclo di trasformazione dei capitali di derivazione criminale in investimenti leciti e si caratterizza per la elevata dannosità sociale, in quanto l’investimento produttivo, normalmente di notevole entità, è in grado di consentire la rapida affermazione sul mercato di imprese direttamente collegate alla criminalità organizzata. Qualora, tuttavia, le attività di illecito reimpiego siano svolte nella gestione ‘imprenditoriale’ di un’associazione di stampo mafioso viene meno la configurabilità dell’art. 648 ter c.p..
Anche questa pronuncia conferma i ridotti margini di operatività della fattispecie in esame: se si prescinde dal reimpiego di proventi di delitto colposo, che tuttavia costituisce un’ipotesi priva di rilevanza pratica, la norma in esame dovrebbe riguardare i soli casi in cui si reimpieghi il provento di delitto, compiendo un’operazione non idonea ad ostacolare l’identificazione della provenienza stessa, oppure si reimpieghi il provento, dopo averlo acquistato ricevuto o occultato ma non per fini di profitto.
In effetti, al di là di forzature interpretative, sicuramente mosse dal lodevole intento di aprire un qualche minimo spazio di operatività alla disposizione, la fattispecie di impiego di capitali illeciti è configurabile soltanto “fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli artt. 648 e 648 bis c.p.”.
In considerazione di queste evidenti discrasie, è auspicabile una razionalizzazione del quadro normativo che determini un più efficace coordinamento delle norme e preveda al contempo una sistemazione delle fattispecie di riciclaggio e reimpiego, incluse quella di ricettazione e incauto acquisto, nell’ambito di un titolo dedicato ai reati contro il patrimonio e all’interno di un capo che contenga le ipotesi di perpetuazione di una situazione antigiuridica.