Si sa, nella sicurezza sul lavoro, così come in altri temi relativi alla salute delle persone (come la tutela ambientale) i più grandi sviluppi normativi, sono nati dopo una tragedia o dopo un evento che va a scuotere l’opinione pubblica riguardo ad un determinato contesto. Il tema della sicurezza sul lavoro, ad esempio è stato scosso nella sua storia, da diversi episodi, uno in particolare è il disastro di Marcinelle avvenuto l’8 agosto del 1956. L’incidente avvenne appunto la mattina dell’8 agosto 1956 nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, in Belgio. Si trattò d’un incendio, causato dalla combustione d’olio ad alta pressione innescata da una scintilla elettrica. L’incendio, sviluppatosi inizialmente nel condotto d’entrata d’aria principale, riempì di fumo tutto l’impianto sotterraneo, provocando la morte di 262 persone delle 274 presenti, in gran parte emigranti italiani. L’incidente è il terzo per numero di vittime tra gli italiani all’estero dopo i disastri di Monongah e di Dawson. In questo dramma si possono notare carenze su due rami fondamentali della sicurezza sul lavoro: quello dell’antincendio e quello degli spazi confinati. Entrambi questi temi nel tempo sono stati affrontati dalla legislazione europea ed italiana, basti penare al DPR 177/2011 che comunque non va a trattare in modo del tutto esaustivo il tema.

Il tutto nacque in una precisa epoca storica, dove per molto tempo si è data maggior importanza alla produzione e allo sviluppo piuttosto che alla salute e alla sicurezza dei lavoratori e dei cittadini. Infatti. l’industria belga fu scarsamente intaccata dagli effetti distruttivi della seconda guerra mondiale; tuttavia il Belgio, paese di dimensioni modeste, si ritrovò con poca manodopera disponibile. Ciò fece aumentare la richiesta di manodopera, soprattutto per il lavoro in miniera. Il 23 giugno 1946 fu firmato il Protocollo italo-belga che prevedeva l’invio di 50 000 lavoratori in cambio di carbone. Nacquero così ampi flussi migratori verso il paese, uno dei quali, forse il più importante, fu quello degli italiani verso le miniere belghe. Nel 1956 fra i 142 000 minatori impiegati, 63 000 erano stranieri e fra questi 44 000 erano italiani. Come si può notare la problematica della provenienza dei lavoratori, da valutare obbligatoriamente nei documenti di valutazione dei rischi come previsto dal D.Lgs. 81/08, anche all’epoca era un problema, che però non veniva in alcun modo affrontato.

Il “pozzo I” della miniera di Marcinelle era in funzione sin dal 1830. Non è corretto affermare che esso fosse privo delle più elementari norme di sicurezza ma, di certo, la sua manutenzione era ridotta al minimo necessario, come del resto succedeva spesso in molte realtà produttive dell’epoca (non solo in Belgio). Tra le altre funzioni, questo pozzo serviva da canale d’entrata per l’aria. Il “pozzo II” invece operava come canale d’uscita per l’aria. Il “pozzo III”, in costruzione, aveva delle gallerie connesse con i primi due, ma esse erano state chiuse per diverse e valide ragioni. Gli ascensori, due per pozzo, erano azionati da potenti motori posti all’esterno. In alto su grandi tralicci metallici erano poste due molette, enormi ruote che sostenevano e guidavano i cavi degli ascensori. La maggior parte delle strutture all’interno del pozzo erano in legno. Il motivo era principalmente il peso della tradizione ma anche il fatto che, ad una tale profondità, il cavo dell’ascensore potesse oscillare in modo tale da giungere a strisciare sulle traverse. Quindi, per evitare l’usura prematura del cavo, si dava preferenza alle strutture in legno. L’aerazione era assicurata da grandi ventilatori posti all’esterno che aspiravano l’aria viziata tramite il “pozzo II”.

La cronologia degli eventi fu la seguente:

Alle 7:56 dell’8 agosto Antonio I., addetto alle manovre del livello 975 m, una volta caricato l’ultimo carrello pieno dà il via alla rimonta. Poi lascia il suo posto di lavoro e va alla ricerca di altri carrelli pieni; il suo aiutante Vaussort rimane sul posto.

Verso le 8:00 Mauroy, addetto alle manovre in superficie, telefona a Vaussort poiché ha bisogno dell’ascensore per il piano 765 m. Mauroy e Vaussort prendono un accordo previsto dai protocolli di lavoro, ma che in seguito risulterà fatale. L’accordo è il seguente: per due viaggi l’ascensore sarà “libero”, e questo permette a Mauroy di fare partire l’ascensore senza il via libera del piano 975 m: ma questa decisione implica che il piano 975, per 2 volte, non potrà più caricare l’ascensore. Dopo essersi accordato, a sua volta Vaussort parte alla ricerca di vagoncini pieni; secondo le registrazioni del “Rockel” sono le 8:01 min e 40 sec.

Alle 8:05 uno dei due ascensori (d’ora in poi indicato con A) arriva al piano 765 m per essere caricato. L’altro (B) si ritrova nel pozzo verso 350 m.

Alle 8:07 l’ascensore A è carico e rimonta in superficie, mentre B riscende a 975 m. Durante questa movimentazione, Antonio I. è ritornato al suo posto di lavoro. Qui vi sono due versioni divergenti. Secondo Antonio I., lui avrebbe chiesto al suo aiutante Vaussort se potesse caricare, ricevendone una risposta affermativa; mentre secondo Mauroy, Vaussort era ancora assente e quindi non avrebbe potuto autorizzare Antonio I. a caricare, e neppure avvertirlo che quell’ascensore gli era vietato. Nessuna delle due versioni è totalmente soddisfacente, Vaussort morirà nella sciagura e non potrà quindi testimoniare e confermare una delle due versioni o fornirne una sua terza.

Alle 8:10, l’ascensore A arriva in superficie mentre B arriva al livello 975. Incurante (o ignaro) del fatto che quell’ascensore gli fosse vietato, Antonio I. comincia a caricare i vagoncini pieni, arrivati dai cantieri durante la sua assenza. Ma la manovra non riesce: il sistema che blocca il carrello durante la rimonta dell’ascensore s’inceppa. Questo sistema avrebbe dovuto ritirarsi un breve istante per lasciare uscire totalmente il vagoncino vuoto. Ma ciò non accade, e i due vagoncini si ritrovano bloccati e sporgenti dal compartimento dell’ascensore. Il vagoncino vuoto sporge di 35 cm, mentre il pieno sporge di 80 cm. Per Antonio I. la situazione è fastidiosa ma non pericolosa: è sicuro che l’ascensore non partirà senza il suo segnale di partenza. In superficie Mauroy ignora totalmente la situazione verificatasi al piano 975 m. Mauroy è nel protocollo di lavoro «ascensore libero» e farà partire l’ascensore allorché avrà finito di scaricare i vagoncini rimontati dal piano 765 m.

Alle 8:11 Mauroy ha finito di scaricare l’ascensore A e dà il via alla partenza, il che immancabilmente provoca anche la partenza dell’ascensore B. Al piano 975 m Antonio I. vede l’ascensore B rimontare bruscamente. Nella risalita l’ascensore, con i due vagoncini sporgenti, sbatte in una putrella del sistema di invio. A sua volta questa putrella trancia una condotta d’olio a 6 kg/cm² di pressione, i fili telefonici e due cavi in tensione (525 Volt), oltre alle condotte dell’aria compressa che servivano per gli strumenti di lavoro usati in fondo alla miniera: tutti questi eventi insieme provocarono un imponente incendio. Essendo questo avvenuto nel pozzo di entrata dell’aria, il suo fumo raggiunse ben presto ogni angolo della miniera causando la morte dei minatori. In quanto al fuoco, la sua presenza si limitò ai due pozzi e dintorni, ma il suo ruolo fu determinante perché tagliò ogni via d’accesso nelle prime ore cruciali, fra le 9 e le 12. L’incendio non scese sotto il piano 975 m mentre divampò nei pozzi fino al piano 715 m. A questo piano Bohen, prima di morire, annotò nel suo taccuino “je reviens de l’enfer” (ritorno dall’inferno). L’allarme venne dato alle 8:25 da Antonio I., il primo risalito in superficie tramite il secondo pozzo, anche se già alle 8:10, in superficie, si era capito che qualcosa di gravissimo era accaduto poiché il motore dell’ascensore (1250 CV) si era fermato e il telefono non funzionava più (il responsabile Gilson era corso ad avvertire l’ingegnere Calicis che probabilmente erano di fronte a un cassage de fosse, cioè a una “rottura nel pozzo”, un deragliamento). Calicis ordinò al suo aiutante Votquenne di scendere nella miniera per informarsi.

Verso le 8:30 Votquenne è pronto a scendere ma il freno d’emergenza è bloccato per mancanza di pressione d’aria. Questo era dovuto alla rottura della condotta in fondo al pozzo, il che aveva svuotato il serbatoio in superficie. Votquenne ordina la chiusura della condotta d’aria che scende nel pozzo: ci vorranno più di 10 minuti per ristabilire una pressione sufficiente. Votquenne e Matton scendono senza equipaggiamento, arrivano sotto 835 m ma devono rinunciare a causa del fumo. Nel frattempo 6 minatori superstiti arrivano in superficie mentre Stroom scende nella miniera.

Alle 8:35 Calicis telefona alla centrale di soccorso chiedendo di tenersi pronti e precisa che richiamerà in caso di bisogno.

Alle 8:48 Calicis chiede l’intervento della centrale di soccorso distante 1,5 km dalla miniera. I soccorritori impiegheranno 10 minuti per arrivare.

Alle 8:58 la prima squadra di soccorritori arriva sul posto. Votquenne e uno dei soccorritori equipaggiati con i respiratori Dräger fanno un secondo tentativo. Arrivano a 1035 m ma non riescono ad uscire dall’ascensore, in quanto i suoi occupanti erano montati nel terzo compartimento dell’ascensore fermo a 3,5 m più in alto del livello di uscita. Odono dei lamenti ma l’addetto alle manovre non risponde più alle loro chiamate, probabilmente già incosciente. In superficie, Gilson decide di far rimontare l’ascensore. Rimontando, a livello 975, Votquenne vede già le fiamme che hanno raggiunto l’ultima delle tre porte di sbarramento fra i due pozzi.

Verso le 9:10 il pozzo di estrazione dell’aria era a sua volta inutilizzabile, raggiunto dall’incendio. I cavi delle gabbie di questo pozzo cedettero a poco a poco. Il primo si spezzò verso le 9:30, il secondo cavo si spezzò verso le 10:15.

Verso le 9:30 due persone tentarono, senza equipaggiamento, di farsi strada attraverso un tunnel laterale comunicante col pozzo in costruzione al livello 765m. Il tentativo risultò vano. Il passo d’uomo venne allargato solo quattro ore e mezza più tardi e ciò permise di scoprire i primi cadaveri (Il primo cadavere era in realtà un cavallo, trovato da Arsene Renders, ingegnere della società Foraky, che dichiarò “era un brutto presagio”). D’altro lato fu anche verso le 9:30 che si decise di fermare la ventilazione.

Alle 10:00 Calicis decide di separare i due cavi del pozzo numero I. Questo permetterà di servirsi dell’ascensore rimasto bloccato in superficie. Questo lavoro lungo e delicato sarà finito poco prima di mezzogiorno.

Alle 12:00 3 uomini, Calicis, Galvan e un soccorritore, scendono fino a 170 m ma un tappo di vapore impedisce loro di continuare.

Alle 13:15 Gonet, il caposquadra del piano 1035 lascia un messaggio su una trave di legno. «On recule pour la fumée vers 4 paumes. On est environ à 50. Il est 1h 1/4. Gonet» (“Indietreggiamo per il fumo verso 4 palmi. Siamo circa 50. È l’una e un quarto. Gonet”). Questo messaggio sarà ritrovato dai soccorritori il 23 agosto.

Verso le 14:00 si decide di rimettere la ventilazione in marcia.

Verso le 15:00 una spedizione scende attraverso il primo pozzo e scopre tre sopravvissuti. Gli ultimi tre furono scoperti più tardi, da un’altra spedizione.

Il 22 agosto, alle 3 di notte, dopo la risalita, uno di coloro che da due settimane tentavano il salvataggio dichiarò in italiano: «tutti cadaveri». Persero la vita 262 uomini, di cui 136 italiani e 95 belgi. Solo 13 minatori sopravvissero.

Da questa agghiacciante descrizione si può comprendere quali furono le carenze che portarono al grave incidente, che per lo più sono di origine organizzativa/procedurale, oltre che strutturale. Al di là degli impianti e della loro sicurezza, è chiaro come l’assenza di procedure specifiche e scritte nonché di un sistema di comunicazione efficace portò al disastro. Questi sono peraltro due aspetti fondamentali nella gestione dei lavori negli spazi confinati, che però all’epoca non vennero presi in considerazione, o meglio non vennero presi abbastanza in considerazione. Gli addetti non erano addestrati ad agire in caso di emergenza, non esisteva un sistema di comunicazione alternativo alla linea telefonica e anche i soccorsi furono avvisati troppo tardi, proprio a causa di questa disorganizzazione comunicativa.

Comunque appena dopo la tragedia, passate le prime ore di stupore, la mobilitazione fu generale. La Croce Rossa, i Pompieri, la Protezione Civile, l’Esercito e la Polizia (ma anche semplici cittadini) unirono le loro forze. Nei giorni successivi arrivarono rinforzi di soccorso da Ressaix, Frameries, Beringen. Dalla Francia arrivò Emmanuel Bertieaux con delle apparecchiature di radiotelefonia, dalla Germania arrivò Karl Von Hoff con un laboratorio mobile per le analisi dei gas. Le scuole dei dintorni furono convertite in mense e dormitori, le chiese in camere ardenti. E mentre in superficie l’assistente sociale G. Ladrière, “l’angelo del Cazier”, cerca di consolare le famiglie, nelle gallerie, Angelo Galvan “la volpe del Cazier” cerca i suoi compagni di lavoro. Galvan e i suoi amici soccorritori, tra molti pericoli, nel fumo, nel calore e nella puzza di bruciato e di morte cercarono, invano, eventuali superstiti.

La notte del 22 agosto, alla profondità di 1035 m, svanirono le ultime speranze. Il giorno 8 agosto intanto la giustizia aveva avviato la sua inchiesta. Il 13 agosto furono sepolte le prime vittime. Il 25 agosto, il ministro dell’economia Jean Rey creò una commissione d’inchiesta, alla quale presero parte due ingegneri italiani, Caltagirone e Gallina del Corpo delle Miniere Italiane. Anche la confederazione dei produttori di carbone creò la sua inchiesta amministrativa. Queste tre inchieste dovevano fare “ogni luce” su cosa era accaduto nel pozzo St. Charles di Marcinelle il mattino dell’8 agosto 1956. Nessuna di queste istituzioni mantenne pienamente le sue promesse.

La commissione d’inchiesta era composta in tutto da 27 membri. Furono tenute 20 sedute che si conclusero con l’adozione del «Rapport d’Enquête» reso pubblico nel giugno del 1957. Questo testo fu adottato all’unanimità con una piccola astuzia; ogni gruppo era autorizzato ad aggiungere una nota di minoranza, cosa che 4 gruppi fecero. Fra questi, i 6 membri italiani sottolinearono che fu la persistenza della ventilazione la causa non dell’incidente, ma del numero elevato delle vittime. In altre parole, i responsabili avrebbero dovuto fermare il ventilatore subito dopo aver saputo dell’incendio nel pozzo. Tramite queste note di minoranza si capisce che ogni gruppo cercava più di fare prevalere il suo punto di vista (o gli interessi che questo gruppo difendeva) che la verità sui fatti accaduti.

L’inchiesta giudiziaria fu condotta dal magistrato Casteleyn. Vi furono delle stranezze: per esempio, il medico legale non fu autorizzato a testimoniare davanti alla commissione d’inchiesta, mentre parecchi documenti del processo furono inviati alla commissione. Fra questi, alcune foto, ma soprattutto un documento sequestrato che venne pubblicato prima del processo a pagina 74 del «Rapport d’Enquête». Il processo in primo grado si svolse a Charleroi dal 6 maggio 1959 al 1º ottobre 1959. Le 166 parti civili erano difese da un collettivo d’avvocati fra cui Leo Leone e Giorgio Mastino del Rio per conto dell’INCA. I dibattiti diventarono presto una battaglia di perizie di cui pochi, Corte compresa, erano in grado di capire qualcosa. Alla fine, i 5 imputati furono assolti. In appello, davanti la 13ª Camera di Bruxelles, una sola condanna fu pronunciata, quella dell’ingegnere Calicis, condannato a 6 mesi con la condizionale e a 2000Fb di multa. La società Bois du Cazier venne condannata a pagare una parte delle spese e a risarcire, per circa 3 milioni di Fb, gli eredi delle vittime che non erano loro dipendenti (Stroom e Waldron). Fu fatto ricorso in cassazione che rinviò la causa (ma solo per certe materie) a Liège. La fine giudiziaria avvenne il 27 aprile 1964 con un accordo tra le parti.

Tutta la vicenda comunque scosse fortemente l’opinione pubblica e da quel momento si cercò di lavorare ad uno sviluppo di una normativa che palesemente in quel momento era incompleta ed insufficiente in tutta Europa. Peraltro la vicenda diede la svolta ad un’integrazione degli italiani in Belgio, fino a quel momento molto difficile. Infatti gli italiani trovarono innumerevoli difficoltà di integrazione con la comunità belga, almeno fino a quell’8 agosto 1956. «Il nostro vicino, che non la smetteva mai di insultare mio padre, è entrato da noi piangendo» racconta il figlio di un minatore. “La comunità italiana del Belgio ha pagato con il sangue il prezzo del suo riconoscimento” scrisse Patrick Baragiola sul quotidiano Le Monde.

Di fatto quindi l’immigrazione italiana ne ha risentito (della tragedia) e la regolamentazione in materia di sicurezza sul lavoro è aumentata, sia a livello belga che europeo.


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