Deve essere rimessa all’A.P. del Consiglio di Stato la questione concernente l’applicabilità, ad una gara finalizzata alla realizzazione di un programma di housing sociale, della previsione di cui all’art. 37, c. 13 del d.lg. n. 163/2006, e ciò anche in considerazione del mancato richiamo di tale disposizione da parte della lex specialis e dell’assenza, nel caso di specie, di finanziamenti pubblici.

 CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, ordinanza 15 aprile 2013, n. 2059. Pres. Volpe, Est. Luttazi

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Il caso 

Con l’ordinanza in esame il Consiglio di Stato ha affrontato la fattispecie in cui un raggruppamento temporaneo di imprese, interessato a risultare affidatario di una procedura di gara finalizzata alla realizzazione di numerosi alloggi nell’ambito di un programma di housing sociale non aveva provveduto, in fase di offerta, a rispettare il dettato di cui all’art. 37, c. 17 del d.lg. n. 163/2006, il quale attualmente stabilisce che «Nel caso di lavori, i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento»

Il programma di hosing sociale è una procedura non espressamente normata dal d.lg. n. 163/2006 e come tale assoggettata unicamente alla disciplina di cui all’art. 27 del medesimo Codice degli appalti, concernente i cc.dd. contratti esclusi, a termini del quale è previsto al c. 1 che «L’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall’ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità. L’affidamento deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con l’oggetto del contratto. L’affidamento dei contratti di finanziamento, comunque stipulati, dai concessionari di lavori pubblici che sono amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori avviene nel rispetto dei principi di cui al presente comma e deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti».

Tale omissione era stata sanzionata dal giudice di primo grado con l’estromissione del raggruppamento concorrente dalla gara di cui trattasi.

Nell’ambito del giudizio in appello, il Consiglio di Stato, considerata la peculiarità della procedura da cui trae origine la vicenda, ha dato atto della tesi secondo cui «ogni qualvolta l’operazione contrattuale concerne la realizzazione dei lavori, pur se la vicenda non sia direttamente sussumibile nell’alveo degli appalti pubblici, ma presenta elementi idonei a configurare ipotesi miste di appalto e concessione, nondimeno i principi degli artt. 27 e 30 del Codice debbono essere rispettati e tra questi il principio di trasparenza rispetto al quale si pone, come meccanismo applicativo, la previsione recata dall’art. 37, comma 13, del Codice, in forza della quale deve essere chiaro, fin dal momento della partecipazione alla selezione, nel caso di concorrenti riuniti in raggruppamenti, non solo la quota di partecipazione al raggruppamento ma anche la “quota” di attività […] eseguita dal singolo operatore economico e quota di effettiva partecipazione al raggruppamento, e che vi è la necessità che sia l’una che l’altra siano specificate dai componenti del raggruppamento all’atto della partecipazione alla gara».

Peraltro, la necessità di un intervento dell’Adunanza Plenaria ai fini della risoluzione della questione controversa è stata giustificata dai giudici di Palazzo Spada anche in considerazione della rilevanza della «circostanza che la norma ritenuta dal Tar [nell’ambito del giudizio di primo grado] precetto sanzionato da esclusione non è espressamente richiamata dalla lex specialis di gara; e che avvalendosi sul punto, come fatto dal primo giudice, di una interpretazione estensiva della normativa di riferimento, o applicativa di principi generali, potrebbe ritenersi violato il noto principio di tassatività delle ipotesi di esclusione, principio che ha avuto da ultimo una puntuale traduzione normativa attraverso il nuovo comma 1 bis dell’articolo 46 del decreto legislativo n. 163/2006, come aggiunto dal n. 2) della lettera d) del citato art. 4, comma 2, del decreto-legge n. 70/2011; ma che vigeva nell’ordinamento anche prima, in quanto desumibile dall’art. 45 della Direttiva 2004/18/CE».

Commento 

L’ordinanza in commento assume rilievo non solo in relazione alla specifica vicenda oggetto di analisi da parte del Consiglio di Stato, coinvolgendo l’intera (e assai ampia) materia afferente al controverso tema relativo alla diretta estendibilità, nei confronti dei contratti cc.dd. esclusi dall’ambito di applicazione del d.lg. n. 163/2006 – e in quanto tali assoggettati unicamente al rispetto dei principi traenti origine dal Trattato – di alcune specifiche disposizioni recate dal medesimo Codice degli appalti e riferibili, per scelta del legislatore interno, solamente ai contratti normati in toto dal d.lg. n. 163/2006.

La questione non è di poco momento: in particolare, va rilevato che non si può in alcun modo equivocare circa la distinzione di carattere categoriale che corre, nel nostro ordinamento, tra “principi” (quelli cui, nel caso di specie, fa riferimento l’art. 27 del d.lg. n. 163/2006) e “disposizioni” (nella fattispecie concreta, l’art. 37, c. 13 del medesimo Codice degli appalti); si tratta infatti di concetti diversi, per il modo in cui vengono a esistenza, oltre che per come funzionano in sede applicativa.

Già il Betti chiariva che «”principio” designa qualcosa che si contrappone concettualmente a compimento, a conseguenza che ne discende, e così alla norma compiuta e formulata», che è la disposizione, o regola (Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1971, 312).

E’ indubbio che vi siano determinate caratteristiche, costantemente esibite dai principi, e non anche dalle disposizioni, che segnano il necessario discrimen tra le due entità del diritto.

I principi sono i pilastri fondamentali su cui si regge l’ordinamento, rappresentandone i valori fondanti e costitutivi; come tali, i principi sono norme che, per un verso, non necessitano di ulteriore giustificazione e che, per altro verso, giustificano e quindi “fondano” altre norme (determinandone la ratio); di contro, le disposizioni sono il prodotto della specificazione, o meglio: della concretizzazione di un principio (meglio, di uno o più principi).

Diversa è anche la modalità espressiva con cui si pongono nell’ordinamento: i “principi” proclamano, con nettezza, un valore, di solito un valore che rappresenta la caratterizzazione assiologica di un settore più o meno esteso dell’ordinamento (come, nella materia della contrattualistica pubblica, il principio della pubblicità e trasparenza, o quello della non discriminazione, etc.), o finanche dell’ordinamento nel suo complesso (il principio di uguaglianza, il principio di laicità, etc.), o comunque un obiettivo che, all’interno dell’ordinamento o di un suo settore, è considerato meritevole di essere perseguito (ad esempio, il principio di conservazione degli atti normativi); di contro, le “disposizioni” si rivelano ordinariamente “opache” rispetto al valore che esse intendono tutelare, mantenendosi distaccate, dal punto di vista della formulazione dell’enunciato normativo, rispetto alle ragioni sottostanti che le giustificano (lasciate, per così dire, sullo sfondo, nel limbo dell’inespresso); le disposizioni, pur essendo – ovviamente – funzionali alla realizzazione di determinati valori o obiettivi, e quindi certamente strumentali all’attuazione di specifici principi, non fanno esplicito riferimento a quel valore (obiettivo, principio), non lo proclamano: piuttosto indicano direttamente una condotta funzionale al relativo perseguimento, e le associano una modalità deontica (divieto, permesso, obbligo).

Diverso è soprattutto il grado di genericità e di indeterminatezza che è presente, rispettivamente, nelle “disposizioni” e nei “principi”.

La genericità/indeterminatezza dei principi (recte: la loro minore specificità/determinatezza, in comparazione con le disposizioni) riguarda sia il relativo perimetro di definizione (il campo di applicazione, i casi cui il principio si applica), sia le conseguenze che da essi possono trarsi (gli effetti giuridici derivanti dall’applicazione del principio). Pertanto, la fattispecie del principio è massimamente eterogenea, e le conseguenze che si possono originare dall’applicazione del medesimo assai diverse.

In altre parole, la fattispecie di un principio di solito proclama un valore, un fine (stando alla materia della contrattualistica pubblica, ad esempio, il valore della concorrenza, l’obiettivo di assicurare a tutti gli operatori pari condizioni di concorrere all’aggiudicazione di pubbliche commesse), senza stabilire precisamente in che modo esso dovrà essere realizzato: quali precise conseguenze siano a esso associate dipende da una serie di circostanze non esattamente predeterminabili.

Di contro, una disposizione può anche avere una fattispecie relativamente generica (anche se normalmente così non è, essendo fenomeno tipico della produzione legislativa degli ultimi decenni la crescente e sistematica “puntualizzazione” degli asserti normativi), cui però resta associata una conseguenza, o anche più conseguenze alternative, indicate in maniera tendenzialmente precisa.

La struttura del principio è invece, per così dire, “a trama aperta”, in quanto non sempre è possibile delimitare in via previa e in maniera esaustiva il suo campo di applicazione, essendo sempre ammessa la possibilità che si presenti un caso, non previsto in anticipo, in cui il principio si appalesa rilevante e potenzialmente applicabile; e, al contrario, non essendo sempre esattamente predeterminabile ciò che l’applicazione di un principio richiede per un certo caso concreto (un principio può essere applicato in molti modi diversi, e non tutti prevedibili ex ante in maniera esaustiva).

Come rileva il Bartole, «la generalità e pervasività delle loro indicazioni [dei principi] lascia indeterminate le fattispecie di loro applicazione; è cioè difficile applicare ad essi [ai principi] quello che secondo tradizione era ed è il modello normale di disposizione giuridica, per cui alla ricorrenza di una determinata premessa è fatta conseguire automaticamente, o quasi, una data conseguenza» (Bartole, Principi generali del diritto (diritto costituzionale), in Enc. Dir., vol. XXXV, 1986, 523).

Ciò detto, appare importante segnalare che:

i) mentre i “principi” sono quelle norme cui è riconosciuto un valore giustificativo di altre norme, le “disposizioni” rappresentano una specificazione, una concretizzazione dei principi. Trattasi, all’evidenza, di rapporto assiologico, non cronologico: non può in alcun modo rilevare che le disposizioni siano state promulgate prima del principio (se di principio espresso si tratta). Ciò comporta che quelle disposizioni dovranno essere rese (dagli interpreti, o dal legislatore) congruenti con il principio che le giustifica;

ii) poiché i principi sono altresì, normalmente, generici e indeterminati, e poiché possono in casi concreti entrare in conflitto tra loro, la conclusione è che non è predeterminabile in anticipo e in maniera esaustiva l’insieme di disposizioni derivabili (giustificabili) in sede di concretizzazione di un principio o in sede di bilanciamento tra principi confliggenti;

iii) i principi sono norme suscettibili di una applicazione “graduale” o “flessibile”, o in altri termini sono norme defettibili (norme la cui applicazione è soggetta ad eccezioni implicite); un principio si può applicare “più o meno”. Di contro, l’applicazione delle disposizioni segue la logica del “tutto o niente”: la disposizione si applica in toto se si verificano le circostanze fattuali previste nella fattispecie, e non si applica se tali circostanze non si verificano;

iv) mentre il principio vale come norma finale (indicando l’obiettivo a cui tendere), le disposizioni hanno un’importanza strumentale, in quanto rilevano nella misura in cui riescono ad assicurare la realizzazione di un principio: è possibile dunque immaginare più disposizioni diverse che, dato un principio (o “valore”), risultino funzionalmente equivalenti ai fini della realizzazione di quel principio o valore.

In altre parole, ciò che va evitata è, ad avviso di chi scrive, l’assimilazione, sic et simpliciter, tra “principi” e “disposizioni”.

In tale prospettiva, non appare convincente la tesi secondo cui il rispetto del principio di trasparenza – espressamente evocato dall’art. 27 del d.lg. n. 163/2006, applicabile anche alla procedura oggetto della presente analisi – possa essere assicurato solo attraverso l’applicazione di una specifica disposizione (nel caso concreto: l’art. 37, c. 13 del codice degli appalti), e che, al contrario, il medesimo obiettivo non possa essere perseguito mediante la scrupolosa osservanza delle regole fissate da una legge di gara, che tuttavia tale specifica disposizione del d.lg. n. 163/2006 non richiama.

Alla medesima conclusione deve peraltro pervenirsi in considerazione del fatto che, a termini di quanto stabilito dall’art. 27 del medesimo d.lg. n. 163/2006, i contratti cc.dd. esclusi, pur essendo assoggettati ai principi desumibili dal Trattato, sono attratti dall’ambito di applicazione del Codice degli appalti solo entro limiti assai ristretti: infatti, è stato lo stesso legislatore a individuare in maniera precisa le disposizioni del d.lg. n. 163/2006 ritenute direttamente ed espressamente applicabili a tali contratti (art. 68 sulle specifiche tecniche, art. 65 sull’avviso sui risultati della procedura di affidamento, art. 225 sull’avviso relativo agli appalti aggiudicati): ebbene, adottando la medesima “tecnica normativa”, è evidente che qualora il legislatore avesse ritenuto opportuno predicare la diretta applicabilità dell’art. 37, c. 13 cit. ai contratti esclusi, avrebbe dovuto esplicitare tale circostanza in modo puntuale all’interno dell’art. 27 del d.lg. n. 163/2006, la qual cosa non è al contrario avvenuta.

Alla luce di tali considerazioni, è auspicabile che l’Adunanza Plenaria, anche in ragione della rimessione oggetto del presente commento, possa finalmente chiarire la differenza fra “principi” e “disposizioni” volte a disciplinare l’affidamento di contratti pubblici, problematica, questa, che sempre più rappresenta il motivo del contendere in ambito giudiziale: la decisione che ci si attende a seguito dell’ordinanza di rimessione in esame, pertanto, potrebbe avere anche un effetto “deflattivo” del contenzioso amministrativo, in quanto potenzialmente in grado di fornire chiarimenti interpretativi non solo alle stazioni appaltanti, ma anche alle ditte che intendono concorrere ad una pubblica gara, evitando così contestazioni post affidamento.

Peraltro, va rilevato che nella fattispecie concreta la decisione dell’Adunanza Plenaria non potrà prescindere dalla circostanza, ampiamente evidenziata dal collegio rimettente, secondo cui la valutazione circa la diretta applicabilità dell’art. 37, c. 13 del d.lg. n. 163/2006 alla gara per cui è causa determinerebbe l’esclusione del concorrente, il che – anche in considerazione dell’assenza di un richiamo a tale disposizione nella legge di gara – potrebbe comportare la violazione dell’art. 46, c. 1-bis del medesimo Codice degli appalti che, come noto, ha fissato il principio della tassatività delle cause di esclusione (con l’ulteriore conseguenza che, come detto, nel caso concreto l’estromissione del partecipante sarebbe in parte determinata dal mancato richiamo, da parte della stazione appaltante all’interno della lex specialis, della disposizione del Codice si intenderebbe violata, il che potrebbe rappresentare profili di responsabilità in capo all’amministrazione).

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