IN POCHE PAROLE…

Con la sentenza n.47/2024, emessa il 25 marzo 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione agli artt.9 co.1 e 10 co.1 e 2 del d.l. n.14 del 2017 per violazione degli artt.3, 16 e 117 Cost., quest’ultimo in riferimento all’art.2 del Prot. n.4 CEDU, sollevate dal Tribunale di Firenze con ordinanza depositata il 30 gennaio 2023.

Corte Cost., sentenza n. 47 del 25.03.2024 – Presidente BARBERA, Redattore MODUGNO


La normativa di riferimento

L’art.9 del d.l. n.14 del 2017 assoggetta a sanzione amministrativa pecuniaria da cento a trecento euro chiunque, in violazione di divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, ponga in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione delle infrastrutture dei servizi di trasporto ivi indicati. La legge 1 dicembre 2018 n.132 ha aggiunto all’elenco dei luoghi i “presìdi sanitari” e le “aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli”.

Contestualmente all’accertamento della condotta illecita viene ordinato per iscritto al trasgressore l’allontanamento per 48 ore dal luogo in cui è stato commesso il fatto, a sua volta sanzionato amministrativamente in misura pecuniaria di importo doppio in caso di violazione.

In forza del comma 2 dell’art. 9, il provvedimento di allontanamento è altresì adottato nei confronti di chi, nelle medesime aree, commetta gli illeciti di ubriachezza (art. 688 del codice penale), atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 cod. pen.), esercizio abusivo del commercio (art.29 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, recante «Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59»), esercizio abusivo dell’attività di parcheggiatore o guardamacchine (art. 7, comma 15-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante il «Nuovo codice della strada») e vendita abusiva di biglietti di accesso a manifestazioni sportive (art. 1-sexies del decreto-legge 24 febbraio 2003, n.28, recante «Disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive», convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2003, n.88), ferme restando le sanzioni amministrative previste per tali illeciti dalle disposizioni richiamate.

I regolamenti di polizia urbana (co.3) possono individuare ulteriori aree urbane, aventi le destinazioni ivi elencate (presidi sanitari, scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei e via dicendo), alle quali si estende l’applicazione delle disposizioni di cui ai commi precedenti.

Il successivo art.10 del d.l. n.14 del 2017 prevede che l’ordine di allontanamento adottato dagli organi accertatori sia trasmesso al questore (co.1) il quale, nei casi di reiterazione delle condotte  e “qualora possa derivare pericolo per la sicurezza”, può disporre, con provvedimento motivato, per un periodo non superiore a dodici mesi, il divieto di accesso ad una o più delle aree di cui all’art.9, espressamente specificate nel provvedimento, individuando, altresì, modalità applicative del divieto compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario dell’atto (co.2). L’inosservanza del divieto è punita con l’arresto da sei mesi a un anno. Il divieto ha una durata maggiore (da dodici mesi a due anni) e la sua inosservanza è punita con pena più elevata (arresto da uno a due anni) qualora le condotte siano poste in essere da soggetto condannato negli ultimi cinque anni, con sentenza definitiva o confermata in grado di appello, per reati contro la persona o il patrimonio (co.3).

Le due norme, strutturate sull’archetipo del divieto di accesso inteso a contrastare i fenomeni di violenza nel corso delle manifestazioni sportive (DASPO), previsto dall’art.6 della legge 13 dicembre 1989 n.401, recante “Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive” e ascritto, per communis opinio, al novero delle misure di prevenzione personali atipiche, delineano una “fattispecie a formazione progressiva”, in cui le misure approntate a tutela della sicurezza urbana sono via via aggravate, fino a culminare – nel caso di violazione del provvedimento del questore (c.d. daspo urbano) – in un reato contravvenzionale.

L’idea di fondo – espressa nella relazione al disegno di legge di conversione C. 4310 – è che uno dei fattori del degrado delle città sia rappresentato dall’occupazione di determinate aree pubbliche, particolarmente ‘sensibili’ in quanto costituenti punti nevralgici della mobilità, o comunque sia ad alta frequentazione, da parte di soggetti che, stazionandovi indebitamente e spesso svolgendo attività abusive o moleste, ne compromettono la libera e piena fruibilità, contribuendo con ciò a creare un senso di insicurezza negli utenti. Fenomeno in relazione al quale – sempre secondo la citata relazione – “si registra difficoltà o inopportunità di intervenire con forme esclusivamente sanzionatorie”.

Le aree prese in considerazione a tal fine sono primariamente quelle serventi rispetto ai servizi di trasporto: in specie, le aree interne delle infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, nonché le relative pertinenze (art.9 co.1 del d.l. n.14 del 2017). È, peraltro, previsto che i regolamenti di polizia urbana possano estendere le misure in discorso ad ulteriori aree urbane “sensibili”, da essi specificamente individuate: in particolare, quelle «su cui insistono presidi sanitari, scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici», nonché quelle «destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli, ovvero adibite a verde pubblico» (art.9 co.3).

Il caso trattato

Nel caso di specie, che ha originato le questioni di legittimità costituzionale, il provvedimento si basava sul rilievo che all’imputato era stata applicata, in tre precedenti occasioni, la sanzione amministrativa prevista dall’art.9, comma 1, del d.l. n.14 del 2017 con il contestuale ordine di allontanamento dal luogo, per aver impedito l’accessibilità e la fruizione delle infrastrutture dell’anzidetta stazione, condotte dalle quali si era ritenuto che potesse derivare un pericolo per la sicurezza, anche in ragione del fatto che l’autore risultava “gravato da precedenti di polizia per numerosi reati”.

Nelle anzidette circostanze, in cui erano stati violati i divieti di stazionamento nell’area ferroviaria, l’imputato, aveva richiesto denaro “con atteggiamento insistente e fastidioso” alle persone intente ad acquistare titoli di viaggio presso i distributori automatici o che utilizzavano la scalinata di accesso alla stazione, impedendo così la regolare fruizione di tali macchine e delle aree interne dell’infrastruttura.

Le osservazioni del giudice rimettente

I dubbi di legittimità espressi dal giudice rimettente investono, anzitutto, la misura del divieto di accesso contemplata dall’art.10 co.2 del d.l. n.14 del 2017, che comporterebbe, infatti, attraverso un’indebita ‘dilatazione’ del concetto di sicurezza, una limitazione della libertà di circolazione del destinatario, inibendogli per un lungo periodo di tempo l’accesso ad alcune aree cittadine, di norma liberamente fruibili.

Nel garantire la libertà di circolazione dei cittadini, l’art.16 Cost. fa salve le sole limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza, dovendosi qui ritenere esclusi i primi (motivi di sanità) e ristretti i secondi alle sole situazioni in cui garantire ai cittadini, per quanto è possibile, il pacifico esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione, senza essere minacciati da offese alla propria personalità fisica o morale, nei termini del c.d. “ordinato vivere civile» (cfr. sentenza C. Cost. n.2 del 1956).

La disposizione censurata, nel subordinare il divieto di accesso, oltre che alla reiterazione delle condotte di cui all’art.9, commi 1 e 2, alla circostanza che «dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza», farebbe tuttavia riferimento a un concetto di sicurezza ‘onnivoro’ e molto più ampio di quello ora indicato, che abbraccia, oltre agli interessi essenziali per il mantenimento di una ordinata convivenza civile, anche profili di carattere estetico o afferenti ai costumi, come il «decoro».

L’art.4 del d.l. n. 14 del 2017, stabilisce, infatti, che per “sicurezza urbana” deve intendersi, ai fini del medesimo decreto, “il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione, anche urbanistica, sociale e culturale, e recupero delle aree o dei siti degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio, la promozione della cultura del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile, cui concorrono prioritariamente, anche con interventi integrati, lo Stato, le Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano e gli enti locali, nel rispetto delle rispettive competenze e funzioni”.

La più ampia accezione di sicurezza costituirebbe, in altri termini, un coacervo tra la sicurezza in senso stretto (o primaria), “costituente il nucleo duro della competenza legislativa esclusiva statale ai sensi dell’art.117, secondo comma, lettera h), Cost.” e la sicurezza in senso lato (o secondaria), atta a ricomprendere funzioni intrecciate, corrispondenti a plurime competenze legislative di spettanza anche regionale (cfr. C. Cost., sentenza n.285 del 2019).

Le limitazioni alla libertà di circolazione sarebbero pertanto consentite in funzione di tutela di interessi (la sicurezza urbana) che trascendono la sicurezza di cui all’art.16 Cost., determinando la violazione di quest’ultima norma ma anche del principio di proporzionalità / ragionevolezza dell’intervento legislativo desumibile dall’art.3 Cost., in quanto l’art.10 co.2 del d.l. n.14 del 2017 richiede semplicemente che dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza, rendendo quindi sufficiente “una mera possibilità non qualificata”.

In altri termini, verrebbe imposto un sacrificio a un diritto fondamentale senza che ciò sia strettamente necessario, essendo solo eventuale il pericolo per l’interesse che il legislatore intende tutelare (interesse delineato, per di più, ‘in termini particolarmente generici, quasi onnicomprensivi).

“La descrizione in termini molto ampi e generici dei presupposti della misura lascerebbe, inoltre, all’autorità amministrativa eccessivi margini di apprezzamento, in contrasto con il principio affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, proprio con riguardo alla libertà di circolazione tutelata dall’art.2 Prot. n.4 CEDU: principio secondo cui ogni norma che costituisca la base legale di un’interferenza nei diritti fondamentali della persona deve essere connotata da sufficiente precisione e determinatezza, sì da offrire effettiva protezione contro le ingerenze arbitrarie da parte delle autorità pubbliche”.

Qui, invece, la “non chiarissima” descrizione della condotta di cui all’art.9 co.1 ed il concetto polivalente di sicurezza recepito dall’art.10 co.2, uniti alla mera sufficienza di un pericolo anche solo eventuale per la sicurezza stessa al fine di legittimare il provvedimento del questore, sarebbero tutti elementi che idonei a rendere la norma non sufficientemente precisa e determinata, lasciando di conseguenza l’individuo esposto al sostanziale arbitrio dell’autorità amministrativa.

La misura dell’ordine di allontanamento risulterebbe ancor più in contrasto con l’art.16 Cost. in quanto, a differenza dell’art.10 co.2 (che subordina il provvedimento di divieto di accesso del questore ad un possibile pericolo per la sicurezza), non richiede alcun motivo di sicurezza o di sanità né uno specifico potere di apprezzamento da parte dell’organo accertatore

Tale difetto della ‘misura presupposto’ (ordine di allontanamento) si estenderebbe inesorabilmente al provvedimento questorile (daspo urbano), trattandosi – come già evidenziato – di una fattispecie a formazione progressiva, caratterizzata da un graduale inasprimento delle misure a tutela della sicurezza urbana.

Profili di irragionevolezza e di disparità di trattamento, in violazione dell’art.3 Cost., deriverebbero, inoltre, dall’individuazione delle condotte illecite di cui all’art.9 co.1 del d.l. n.14 del 2017, in quanto entrambe le misure (ordine di allontanamento e divieto di accesso) si indirizzano a condotte prive di rilevanza penale (ubriachezza, atti contrari alla pubblica decenza) e non anche a coloro che, nelle stesse aree, commettano fatti – penalmente rilevanti – ben più pericolosi per la sicurezza.

Le misure in questione si applicherebbero, così, al clochard che reca impedimento all’accesso nella stazione ferroviaria, al questuante collocato davanti alla biglietteria automatica, come pure all’ubriaco, non necessariamente molesto, che viaggi a bordo di un tram e al venditore di oggetti minuti che operi nell’atrio di una fermata della metropolitana), mentre ne sarebbe esente “chi, nelle medesime aree, partecipi a risse o commetta fatti di minacce, percosse, lesioni, porto di armi bianche o di oggetti atti ad offendere senza giustificato motivo. Si tratta di reati per i quali l’arresto in flagranza non è consentito, o è consentito solo a talune condizioni, le quali potrebbero non ricorrere: sicché la funzione preventiva non potrebbe essere assolta dall’arresto”.

Un’interpretazione delle disposizioni censurate in termini di conformità ai principi costituzionali evocati sarebbe da escludere in quanto ne determinerebbe uno stravolgimento di portata

Il parere dell’Avvocatura dello Stato

Di diverso avviso è l’Avvocatura dello Stato, che, in linea con la sentenza C. Cost. n.195 del 2019, ricollega al concetto di sicurezza di cui all’art.9 del d.l. n.14 del 2017  “la finalità di evitare le turbative dell’ordine pubblico nelle aree alle quali il regolamento di polizia può estendere l’applicabilità del DASPO urbano” e a quello di cui al successivo art.10 (ove il questore è tenuto a rendere palesi nella motivazione le ragioni per le quali la condotta contestata al trasgressore sarebbe idonea a causare un pericolo per la sicurezza pubblica) la più generale nozione di “ordine pubblico”, appartenente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art.117 co.1 lett.h) Cost.: il che renderebbe la disciplina censurata pienamente rispettosa del dettato dell’art. 16 Cost., escludendone, al tempo stesso, la paventata incompatibilità con la garanzia della libertà di circolazione assicurata dall’art.2 Prot. n.4 CEDU.

Anche le censure prospettate dal giudice a quo in riferimento all’art. 3 Cost. risulterebbero infondate, in quanto il controllo del giudice penale in sede di applicazione della norma che sanziona la violazione del provvedimento del questore deve ricomprendere il richiesto accertamento del pericolo per la sicurezza, così scongiurandosi il rischio di una sanzione penale irrogata sulla base di una valutazione arbitraria della pericolosità del soggetto destinatario dell’ordine di allontanamento.

La disparità di trattamento nei confronti di altri soggetti responsabili – negli stessi luoghi – di reati contro la persona, contro il patrimonio o in materia di stupefacenti non sussisterebbe in ragione delle previsioni degli artt. 13 e 13-bis dello stesso d.l. n. 14 del 2017, che prevedono la possibilità di adottare un divieto di accesso a pubblici esercizi e locali di pubblico intrattenimento anche nei loro confronti.

Meritano considerazione, peraltro, anche le condotte aventi carattere abituale o reiterato, non direttamente prese in considerazione dal giudice a quo ma potenzialmente idonee ad intralciare la fruizione del trasporto pubblico, senza con ciò assurgere a penale rilevanza.

La decisione della Corte Costituzionale

La Corte costituzionale ha preliminarmente giudicato  inammissibile per difetto di rilevanza la questione avente ad oggetto la misura dell’ordine di allontanamento, non costituente oggetto del giudizio penale in quanto meramente prodromica al divieto di accesso violato dall’imputato in una stazione ferroviaria e nelle aree ad essa limitrofe disposto nei suoi confronti dal questore: di conseguenza, ove venisse dichiarata “l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che riguardano l’ordine di allontanamento, quale misura ulteriore rispetto alle sanzioni amministrative per esse comminate, la pronuncia non impedirebbe affatto all’istituto del divieto di accesso di operare, rimanendo perciò ininfluente nel giudizio a quo

Rilevante ma non fondata è stata ritenuta la questione che investe il divieto di accesso ex art.10 co.2 d.l. n.14 del 2017, in riferimento all’art.16 Cost. e all’asserita portata onnivora e debordante del concetto di sicurezza.

La Consulta osserva che “nel contesto della norma sottoposta a scrutinio il termine ‘sicurezza’ può – e deve – essere inteso in un senso più ristretto e coerente con la natura di misura di prevenzione personale atipica, generalmente riconosciuta all’istituto in discussione, e al tempo stesso in linea con il dettato costituzionale: vale a dire propriamente nel senso di garanzia della libertà dei cittadini di svolgere le loro lecite attività al riparo da condotte criminose”.

La presenza della medesima locuzione (“pericolo per la sicurezza”) nell’art.13 bis, volto a prevenire disordini negli esercizi pubblici e nei locali di pubblico intrattenimento e della similare formula “per ragioni di sicurezza” contenuta nell’art.13 per il contrasto allo spaccio di sostanze stupefacenti all’interno o in prossimità di locali pubblici o aperti al pubblico e di pubblici esercizi confermerebbe il perseguimento degli interessi costituzionali alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza” (cfr. sentenza C.Cost. n.195 del 2019 cit.).

Molteplici argomenti, di ordine testuale, logico e sistematico – prosegue la Consulta – convergerebbero in questa direzione.

Il d.l. n. 14 del 2017 reca disposizioni in ordine alla “collaborazione interistituzionale per la promozione della sicurezza integrata e della sicurezza urbana”, quest’ultima da intendersi richiamata per le disposizioni del capo I sezione II (artt. 5, 6, 7 e 8) nei termini formulati nella definizione di cui all’art.4 ma non anche ai fini della disposizione censurata, collocata nel capo successivo, ove si fa riferimento alla “sicurezza” tout court.

Risponderebbe, pertanto, “al canone ermeneutico di un legislatore razionale e non ridondante ritenere che l’espressione sicurezza delle città non sia stata nel frangente usata come sinonimo di sicurezza urbana, giacché, se così fosse, non sarebbe stato necessario menzionare al suo fianco il decoro urbano, che, in base alla definizione dell’art.4, è una componente della sicurezza urbana. Ciò, a prescindere dalla scarsa plausibilità dell’ipotesi che il legislatore, dopo aver fornito la definizione di una determinata locuzione, si avvalga nello stesso testo normativo di una formula diversa per indicare il medesimo concetto”.

Di contro, potrebbe obiettarsi che tanto l’art.9 del d.l. n. 14 del 2017, rubricato “misure a tutela del decoro di particolari luoghi”, quanto l’art.10 qui censurato sono ricompresi nel capo II, che nel titolo (disposizioni a tutela della sicurezza delle città e del decoro urbano) richiama espressamente la (più ampia) nozione di sicurezza urbana attraverso la componente ‘decoro urbano’.

Qui la Consulta ribatte, con argomentazioni apparentemente meno solide, che per quanto concerne l’art.9 si tratta della disposizione che prevede la sanzione amministrativa pecuniaria per una condotta che prescinde dalla condizione del possibile pericolo per la sicurezza, mentre l’art.10, che richiede questo accertamento di pericolosità ai fini dell’adozione del divieto di accesso, non costituirebbe, negli intenti legislativi, una misura a tutela del decoro (sebbene richiamato, quest’ultimo, nel titolo della capo II), ma della “sicurezza delle città”, nei più ristretti termini appena indicati.

Il ragionamento sembra alquanto farraginoso e presta probabilmente il fianco a critiche, nella misura in cui

– differenzia la “sicurezza urbana” (comprensiva del ‘decoro urbano’) dalla “sicurezza delle città”, ricadendo in polisemie ricorrenti in studi urbanistici ove, tuttavia, il rapporto tra ‘generale’ e ‘particolare’ è curiosamente inverso. Più lineare è la definizione del concetto di sicurezza sottolineato nella richiamata relazione all’originario disegno di legge n.4310 presentato alla Camera dei Deputati, ove convergono un’idea di sicurezza primaria (prevenzione e repressione dei reati) ed un’idea di sicurezza secondaria, volta alla ‘prevenzione situazionale’ del degrado e alla promozione di fattori di coesione sociale;

– ipotizza una fattispecie a formazione progressiva che nasce nell’alveo di una nozione estesa di ‘sicurezza urbana’, ove non è richiesto alcun accertamento sulla pericolosità del soggetto in quanto la sanzione è solo amministrativa, per poi evolversi in caso di recidiva in una condotta costituente vulnus per la (più ristretta nozione di) ‘sicurezza delle città’ ovvero per la “sicurezza” tout court, dove la sanzione penale sarebbe controbilanciata dall’accertamento richiesto sulla pericolosità del soggetto che commette violazioni sempre riconducibili alla medesima tipologia di condotta.

In merito alla questione sollevata in riferimento all’art.3 Cost., per asserito contrasto con il principio di “proporzionalità/ragionevolezza” la Corte costituzionale non condivide l’assunto del giudice rimettente secondo cui, ai fini dell’adozione della misura, non occorrerebbe che sia probabile la verificazione di un pregiudizio per l’interesse che si vuole tutelare ma basterebbe una “mera possibilità non qualificata” di tale pregiudizio.

Nell’ottica di un’interpretazione costituzionalmente orientata, le misure di prevenzione in esame “si basano, per loro natura, su un giudizio prognostico, di tipo probabilistico, sulla futura condotta del soggetto che vi è sottoposto”, e non – come sembrerebbe potersi evincere da una formula normativa ‘sintatticamente non del tutto felice’ – sull’intento di consentire la misura anche per arginare situazioni di pericolo remote o puramente congetturali.

Inoltre, il richiamo alla valutazione del pericolo per la sicurezza sulla base della ‘condotta’ tenuta, rende di per sé insufficiente il solo riferimento alla personalità dell’agente, desunta ad esempio dai precedenti penali: “affinché scatti la misura più incisiva del divieto di accesso il comportamento del soggetto deve risultare concretamente indicativo del pericolo che la sua presenza può ingenerare per i fruitori della struttura (ad esempio, in ragione dell’atteggiamento aggressivo, minaccioso o insistentemente molesto mostrato nei loro confronti)”.

La Corte Costituzionale ritiene parimenti infondata la censura di violazione dell’art.117, co.1 Cost. in relazione all’art. 2 Prot. n.4 CEDU, nella misura in cui la condotta (alla reiterazione della quale il divieto di accesso è collegato) viene individuata nell’art.9 co.1 d.l. n.14 del 2017 “in modo sufficientemente chiaro e puntuale”, richiedendosi “che il soggetto, violando divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, abbia impedito (…) l’accessibilità o la fruizione di aree infrastrutturali di servizi di trasporto, ovvero di altre aree cittadine specificamente individuate dai regolamenti comunali nell’ambito di categorie predeterminate”.

“L’identificazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, come pure la determinazione degli esatti confini del concetto di impedimento dell’accessibilità o della fruizione delle aree in questione, costituiscono d’altronde problemi non eccedenti i normali compiti interpretativi affidati, in prima battuta, all’autorità amministrativa chiamata ad adottare la misura e, in seconda battuta, al giudice eventualmente chiamato a verificare la legittimità del suo operato. Per l’applicazione del divieto, occorre, altresì, la reiterazione delle condotte, la quale, a propria volta, è definita in modo adeguato dalla norma generale di cui all’art. 8-bis della legge 24 novembre 1981, n.689 (recante Modifiche al sistema penale), secondo cui si ha reiterazione quando, nei cinque anni successivi alla commissione di una violazione amministrativa, accertata con provvedimento esecutivo, lo stesso soggetto commette un’altra violazione della stessa indole.

La conclusiva questione avente ad oggetto l’art.9 co.1 del d.l. n. 14 del 2017, che irragionevolmente colpirebbe con le misure dell’ordine di allontanamento e del divieto di accesso condotte normalmente prive di rilevanza penale, e non altre condotte costituenti reato e ben più pericolose per la sicurezza (quali partecipazione a risse, minacce, percosse, lesioni, porto di armi bianche o di oggetti atti ad offendere senza giustificato motivo) è ritenuta infondata poiché, “allo stesso modo dell’individuazione delle condotte punibili (ex plurimis, sentenze n. 212 del 2019, n.79 del 2016, n. 229 del 2015 e n. 250 del 2010), anche la selezione delle condotte cui annettere misure a carattere preventivo del genere considerato rientra nella discrezionalità del legislatore, il cui esercizio è sindacabile, in sede di giudizio di legittimità costituzionale, solo ove trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio”.

Nella specie, la selezione delle condotte alla cui reiterazione può conseguire la misura del divieto di accesso, effettuata tramite la norma censurata, “è ispirata all’intento di individuare quelle tipologie di comportamenti che, sulla base dell’esperienza concreta, il legislatore ha ritenuto che contribuiscano maggiormente a generare un clima di insicurezza in determinate aree urbane, e che si caratterizzano per una indebita e prolungata occupazione di spazi nevralgici ai fini della mobilità o interessati, comunque sia, da rilevanti flussi di persone”.

Né sono da ritenersi escluse dalla previsione legislativa le ulteriori e più gravi condotte di diverso ordine e di diretto rilievo penale, come dimostrano

– la previsione del c.d. daspo urbano aggravato nei confronti di chi ponga in essere le condotte di cui all’art.9, commi 1 e 2, essendo stato condannato nell’ultimo quinquennio per reati contro la persona o il patrimonio (art.10, comma 3)

– la previsione per la quale, quando tali reati risultino commessi nelle aree di cui all’art.9, la sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’osservanza del divieto, imposto dal giudice, di accedere ad aree o luoghi specificamente individuati (art.10, comma 5)

– l’introduzione di particolari figure di divieto di accesso ad aree urbane in funzione di contrasto dello spaccio di stupefacenti all’interno o in prossimità di locali pubblici o aperti al pubblico e di pubblici esercizi (art. 13), nonché ai fini della prevenzione di disordini negli esercizi pubblici e nei locali di pubblico intrattenimento (art.13-bis).

Rapporti tra illecito amministrativo e fattispecie penale

Al di là delle questioni di legittimità costituzionale, residuano problematiche applicative per misure oscillanti tra l’illecito amministrativo e le fattispecie di reato.

Va sottolineato, ad esempio, che a differenza di quanto previsto dall’art.10, che consente al questore di individuare le modalità applicative del divieto compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario dell’atto, un’analoga previsione non è invece prevista con riguardo all’ordine di allontanamento di cui all’art.9, commi 1 e 2. Di fatto, risulta assente qualsiasi garanzia procedurale: non vi è traccia della necessità di fissare modalità applicative compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario né tantomeno vengono previste garanzie quali l’eventuale traduzione del provvedimento, anche se i comandi di polizia locale si sono – per così dire – ‘attrezzati’, prevedendo nel verbale di contestazione la traduzione della parte contenente l’ordine di allontanamento.

L’intento perseguito dal legislatore sembra essere il rafforzamento dell’efficacia delle sanzioni amministrative previste per comportamenti ritenuti lesivi del decoro urbano tramite la predisposizione di questa misura accessoria che, si fonda sullo stesso presupposto dell’illecito amministrativo, ma è disposto con un provvedimento amministrativo giuridicamente indipendente ed autonomo rispetto a quest’ultimo; la natura accessoria – rispetto all’illecito amministrativo – viene confermata anche dall’espressione introduttiva del comma 1 dell’art.9 “salvo quanto previsto dalla vigente normativa” ed inoltre, da ciò, consegue che l’ordine di allontanamento non può essere emanato senza il preventivo accertamento e la contestazione della violazione dei prescritti divieti di stazionamento e di occupazione degli spazi.

Relativamente al divieto di accesso per violazione dell’ordine di allontanamento va osservato, inoltre, che trattandosi di un provvedimento di carattere amministrativo, esso non si sottrae alle garanzie previste dalla legge n.241 del 1990 e s.m.i. (diritto di accesso, di difesa, di partecipazione al procedimento con notifica del c.d. avvio, ecc.). A differenza dei provvedimenti monitori (es. avviso orale, ammonimento), ove la natura stessa dell’atto giustifica la mancata adozione di quello che finirebbe col risolversi in un “avviso di un avvertimento”, l’omesso avvio deve essere adeguatamente motivato e trovare un chiaro fondamento in oggettive condizioni che suggeriscono di dare priorità alle esigenze di celerità e di immediata rimozione delle condizioni di pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica;

Occorre altresì garantire una ponderata valutazione della condotta e della concreta pericolosità del soggetto: ma a questo punto, se ricorrono le condizioni (precedenti penali e di polizia, pericolosità della condotta e della persona, rischio di compimento di reati, mancanza di residenza stabile o domicilio abituale o documentati motivi di lavoro o altri plausibili interessi), finirebbe con l’apparire più adeguata ed efficace la comminatoria del c.d. divieto di ritorno.


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