IN POCHE PAROLE…

E’ costituzionalmente illegittimo porre un tetto al trattamento economico dei magistrati e, in generale, a quello dei lavoratori che ricevono una retribuzione o un compenso dalla P.A. 


Corte Costituzionale, sentenza n. 135 del 9-28 luglio 2025- Pres. Amoroso, Red. Marini F. S.

E’ costituzionalmente illegittima la disposizione che detta, in modo fisso e permanente, il tetto massimo retributivo al trattamento economico dei magistrati e, più in generale, dei lavoratori che ricevono una retribuzione o un compenso dalla pubblica amministrazione.

Spetta al legislatore  intervenire in questa materia, tenendo conto delle criticità emerse nel tempo, con soluzioni diverse, orientate a un bilanciamento più sostenibile tra esigenze di contenimento della spesa e tutela dei principi costituzionali.


La questione sottoposta al vaglio della Consulta riguardava la legittimità costituzionale o meno del «tetto retributivo», introdotto nel 2011 (art. 13, comma 1, del D.L. 24 aprile 2014, n. 66 e relativa legge di conversione 89/2014), parametrato a quello del primo presidente della Cassazione, a sua volta fissato in una cifra fissa determinata nel 2014 in 240.000 euro.

La Corte, con la sentenza annotata, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la su richiamata norma –  a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della  sentenza nella Gazzetta Ufficiale, senza alcun effetto retroattivo – nella parte in cui indica il limite massimo retributivo nell’importo di  240.000 euro, al lordo dei contributi previdenziali ed assistenziali e degli oneri fiscali a carico del dipendente, anziché nel trattamento economico onnicomprensivo del primo presidente della Corte di cassazione, “che rappresenta il parametro per l’individuazione del tetto retributivo da parte di un d.P.C.m., previo parere delle competenti commissioni parlamentari

Per quanto riguarda il perimetro soggettivo, per la Corte  il vulnus riguarda tutti i dipendenti pubblici che ricevono una retribuzione e chiunque riceva un compenso dalla pubblica amministrazione, avendo il legislatore adottato una scelta normativa a carattere generale e senza operare alcuna distinzione.

Leggiamo nella sentenza annotata: “questa Corte, nell’escludere l’illegittimità costituzionale dell’estensione al personale di magistratura di misure generali di riduzione della spesa pubblica, ha tuttavia specificato che allorquando la gravità della situazione economica e la previsione del suo superamento non prima dell’arco di tempo considerato impongano un intervento sugli adeguamenti stipendiali, anche in un contesto di generale raffreddamento delle dinamiche retributive del pubblico impiego, tale intervento non potrebbe sospendere le garanzie stipendiali oltre il periodo reso necessario dalle esigenze di riequilibrio di bilancio. Tale regola, che impone una necessaria temporaneità di questo genere di misure ove estese alla magistratura, è condivisa, come chiarito, dal diritto dell’Unione e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia”.

La Corte precisa, quindi, che, in origine, il limite massimo al trattamento economico accessorio previsto dall’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, convertito in legge, era considerato compatibile con la Costituzione, in quanto giustificato dalla natura temporanea della misura che colpiva anche il personale della magistratura. Con il tempo, però,  la norma ha assunto un carattere strutturale e permanente, ragione per cui ha finito per porsi in contrasto con la Costituzione. Da qui la sopravvenuta illegittimità costituzionale per violazione degli articoli 101, secondo comma, 104, primo comma, e 108, secondo comma della Carta.

Secondo la Corte, un ulteriore elemento che conferma l’illegittimità della norma è legato alla valutazione a consuntivo dei risparmi ottenuti: questi, infatti, non possono più essere considerati proporzionati e adeguati rispetto ai principi costituzionali sacrificati. La mancata rivalutazione del tetto retributivo in base all’inflazione, unita alla sua progressiva riduzione dal 2014 in poi, ha comportato un pregiudizio sempre più marcato a tali principi.

Comunque, il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, può decidere se e come modulare l’ambito soggettivo di applicazione del tetto, potendo prevedere limiti differenziati per categoria oppure mantenere un tetto unico valido per tutta la pubblica amministrazione. In altri termini, per la Corte nulla vieta un futuro intervento normativo che, tenendo conto delle criticità emerse nel tempo, adotti soluzioni diverse, orientate a un bilanciamento più sostenibile tra esigenze di contenimento della spesa e tutela dei principi costituzionali. Tali soluzioni potrebbero, ad esempio, articolare i tetti in modo selettivo o incrementare il Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato attraverso limiti ai compensi percepiti da dipendenti pubblici per incarichi svolti in ambito privato.

Riassumendo,  la Corte costituzionale, per le suddette ragioni, ha dichiarato  l’illegittimità costituzionale  dell’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale, escludendo dunque qualsiasi effetto retroattivo. L’illegittimità riguarda la parte in cui la norma stabilisce un limite massimo retributivo pari a 240.000 euro lordi, invece di ancorarlo, come avrebbe dovuto, al trattamento economico complessivo spettante al Primo Presidente della Corte di cassazione, che rappresenta il parametro di riferimento per la definizione del tetto, da individuare mediante decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previo parere delle commissioni parlamentari competenti.

dott. Arturo Bianco


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