Il DASPO al tesserato professionista di federazioni sportive non può limitare le attività lavorative

Il Consiglio di Stato ha più volte riconosciuto che, in ambito sportivo, le misure adottabili ai sensi dell’art.6 della legge n.401 del 1989, si applicano nei confronti di tutti i soggetti indicati nel comma 1 dello stesso articolo, anche se si tratta di tesserati di federazioni sportive, fermo restando che spetta agli organi di disciplina sportiva adottare le sanzioni di propria competenza.

In sostanza, un grave comportamento violento giustifica pienamente il divieto di accedere agli stadi o impianti sportivi ove si svolgano le manifestazioni sportive.

Anche la Suprema Corte, sez.III penale, con sentenza n.35481 dell’8 giugno 2021 ha confermato l’applicabilità del daspo a tesserati (nella fattispecie: calciatori), rilevando che l’interpretazione del divieto di accesso è da intendersi in via generalizzata: “ne deriva che le condotte di violenza tenute nel corso di manifestazioni sportive dai giocatori tesserati a federazioni sportive non possono essere assoggettabili esclusivamente a sanzioni specifiche (squalificazioni, inibizioni e quant’altro) applicabili dai competenti organi della giustizia sportiva. L’attività sportiva, infatti, non è altro che la mera occasione da cui scaturisce il comportamento violento”.

D’altro canto, osserva la Suprema Corte, “quando l’attività sportiva è professionistica, ed in quanto tale retribuita, un ordine amministrativo non può privare un individuo della sua attività lavorativa”. Una diversa interpretazione sarebbe incostituzionale in quanto la norma (art.6 della legge n.401 del 1989) non prevede l’inibizione dell’attività lavorativa con il provvedimento del Questore, ma semplicemente il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive.

Trattandosi di una norma che comunque limita la libertà della persona, la stessa non può che interpretarsi in modo restrittivo in relazione a divieti solo nei casi espressamente previsti. Una limitazione dell’attività lavorativa retribuita sarebbe oltremodo punitiva, oltre i casi espressamente previsti dalla norma.

Il Daspo non può, dunque, colpire il professionista nelle sue attività lavorative, dalle quali ricava la retribuzione per le sue esigenze di vita e nelle quali esplica in pieno la sua personalità.

Viceversa, nelle semplici attività ricreative (non retribuite e non riferibili alle attività lavorative del soggetto interessato) il divieto risulta conforme alla legge e diretto ad evitare, comunque, violenze nelle manifestazioni sportive.

Nel primo caso il daspo sarebbe palesemente illegittimo ed incostituzionale (ex art.1 e 35 Cost.), colpendo un’attività lavorativa, mentre nel secondo caso, in cui il soggetto è mero spettatore e non partecipa in termini di prestazione lavorativa, la misura conserva piena validità, ma occorre, naturalmente, che il provvedimento inibitorio sia adottato all’esito di un giudizio prognostico circa la pericolosità del soggetto colpito dalla misura, al pari della valutazione che deve essere espressa in relazione all’applicazione di qualsiasi misura di prevenzione, finalizzata, appunto, a prevenire condotte valutate dal legislatore come pericolose (nel caso dell’art.6 della legge n.401 del 1989, condotte idonee a turbare l’ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive).

Cass pen. n.35481 del 2021


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