IN POCHE PAROLE …
Nuove disposizioni per il contrasto al terrorismo ed ai reati di particolare gravità. Modifica delle regole sulla gestione delle aziende sequestrate e confiscate. Modifiche delle misure di prevenzione personali, in materia di documentazione antimafia e di concessione dei benefici ai superstiti delle vittime della criminalità organizzata, tutela delle vittime di usura. E, ancora, modifica disciplina degli usi leciti della canapa, finalizzata ad evitare che l’assunzione di prodotti da infiorescenza della canapa possa favorire – mediante alterazioni dello stato psicofisico – l’insorgere di comportamenti che possono porre a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica o la sicurezza stradale.
Sono questi alcuni dei temi oggetto del nuovo decreto sicurezza racchiusi in 39 articoli, di cui undici introducono nuovi reati o ne modificano la fattispecie e altre undici introducono nuove circostanze aggravanti o modificano quelle esistenti.
Il c.d. “decreto sicurezza” è all’esame della Camera (A.C. 2355), in sostituzione della proposta di legge di iniziativa governativa (A.C. 1660 – A.S 1236)
Decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48 “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”.
Disegno di legge di conversione d.l. 48/2025 con relazione tecnica e illustrativa (A.C. 2355).
Il d.l. n. 48/2025, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’11 aprile 2025 (GU S.G. n. 85/2025), strutturato in sei Capi e composto da 39 articoli, è in vigore dal 12 dello stesso mese.
Undici disposizioni introducono nuovi reati o ne modificano la fattispecie ed altre undici introducono nuove circostanze aggravanti o modificano circostanze aggravanti esistenti.
I temi trattati riguardano, tra l’altro, il contrasto al terrorismo e alla criminalità organizzata, sicurezza urbana e ordine pubblico con l’introduzione e la modifica di fattispecie penali, le tutele del personale in servizio, questioni concernenti l’ordinamento penitenziario (ivi comprese le ipotesi di rivolta e disobbedienza in istituti penitenziari), beni confiscati e prevenzione antimafia, tutela delle vittime di usura e disciplina degli usi leciti della canapa.
Il capo I, in particolare, prevede modifiche al codice penale e al d.lgs. n.159 del 2011 finalizzate alla prevenzione e al contrasto del terrorismo e della criminalità organizzata, nonché in materia di beni sequestrati e confiscati e di controlli di polizia.
Contrasto al terrorismo ed ai reati di particolare gravità
L’art. 1 introduce nuove fattispecie di reato in materia di detenzione di materiale contenente istruzioni per il compimento di atti di terrorismo e di divulgazione di istruzioni sulla preparazione e l’uso di sostanze esplosive o tossiche ai fini del compimento di delitti contro la personalità dello Stato.
Il comma 1 lett. a) introduce nel codice penale l’art.270 quinquies.3 che prevede il delitto di “detenzione di materiale con finalità di terrorismo”, in base al quale è punito con la reclusione da 2 a 6 anni chiunque – al di fuori dei casi di associazione con finalità di terrorismo e di addestramento ad attività con finalità di terrorismo (v. artt.270-bis e 270-quinquies c.p.) consapevolmente si procura o detiene materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di congegni bellici micidiali di cui all’art.1 co.1 della legge n.110 del 1975, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche, batteriologiche nocive o pericolose, nonché su ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale.
La nuova previsione – si legge nella Relazione di accompagnamento al decreto – è diretta a colmare un vuoto normativo sulla detenzione di documentazione propedeutica al compimento di attentati e sabotaggi con finalità di terrorismo non agevolmente alle fattispecie di cui agli artt.302 e 414 c.p., relativi all’apologia o all’istigazione di reati con finalità di terrorismo, o all’art.270-quinquies c.p., nella parte in cui punisce l’auto addestramento ad attività terroristiche.
Il comma 1 lett.b), invece, modifica l’art.435 del codice penale con l’aggiunta di un’ulteriore fattispecie di “fabbricazione o detenzione di materie esplodenti”, che fuori dei casi di concorso punisce con la reclusione da 6 mesi a 4 anni chiunque con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde o pubblicizza materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso delle materie esplodenti, asfissianti, accecanti, tossiche o infiammabili ovvero delle sostanze che servono alla loro composizione o fabbricazione, nonché su ogni altra tecnica o metodo per il compimento di delitti non colposi contro la personalità dello Stato di cui al Libro II, Titolo I, c.p. puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.
L’elemento soggettivo del reato è costruito con la previsione del dolo specifico, giacché la condotta dev’essere proiettata verso la finalità della consumazione di taluno dei delitti non colposi contro la pubblica incolumità.
L’art. 2 modifica l’art.17 del d.l. n.113 del 2018, ora rubricato “Prescrizioni in materia di contratto di noleggio di autoveicoli per la prevenzione di reati di particolare gravità”.
La comunicazione, da parte degli esercenti dell’attività di autonoleggio, dei dati identificativi del soggetto richiedente il servizio, contestuale alla stipula del contratto di noleggio e con un congruo anticipo rispetto alla consegna del veicolo, è ora finalizzata a prevenire non solo gli eventi terroristici, ma anche i reati di particolare gravità di cui all’art.51 co.3 bis del codice di procedura penale.
È inoltre previsto che la comunicazione debba contenere i dati identificativi del veicolo (quali targa e numero di telaio) nonché gli intervenuti mutamenti della proprietà e gli eventuali contratti di subnoleggio. La violazione è punita con l’arresto fino a tre mesi o con ammenda fino a euro 206.
Modifiche in materia di documentazione antimafia
L’ 3 art. 3 reca alcune modifiche al codice antimafia in materia di documentazione antimafia riferita ai contratti di rete e di non applicabilità da parte del prefetto dei divieti di contrattare e di ottenere concessioni o erogazioni qualora dall’applicazione di tali divieti derivi il venir meno dei mezzi di sostentamento per l’interessato e la sua famiglia.
La documentazione antimafia è disciplinata dal Libro II (artt. 82-101) del citato d.lgs. n.159 del 2011. Ai sensi dell’art.83 co.1, le amministrazioni e gli enti pubblici, gli enti e le aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico, le società e le imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico nonché i concessionari di lavori o sevizi pubblici, prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e i subcontratti relativi a lavori, servizi o forniture pubblici, ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti di cui all’art.67 del codice medesimo (quali concessioni di servizi pubblici o beni demaniali, iscrizioni negli elenchi di appaltatori o fornitori, licenze in materia di armi ed esplosivi) devono acquisire la documentazione antimafia.
Ai sensi dell’art.84 la documentazione antimafia è costituita dalla comunicazione antimafia e dall’informazione antimafia.
La comunicazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una causa di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67 (vale a dire, l’applicazione con provvedimento definitivo di misure di prevenzione personali, nonché la condanna con sentenza definitiva o, ancorché non definitiva, confermata in grado di appello, per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3 bis, del codice di procedura penale ovvero per i reati di cui all’articolo 640, secondo comma, n.1) del codice penale, commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico, e all’articolo 640-bis del codice penale). Essa può essere sostituita dall’autocertificazione nei casi indicati dall’art.89 (contratti relativi a lavori, servizi o forniture dichiarati urgenti; provvedimenti di rinnovo; attività private che possono essere intraprese previa segnalazione di inizio attività o sottoposte alla disciplina del silenzio-assenso).
L’informazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una causa di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art.67 nonché nell’attestazione della sussistenza o meno di tentativi di infiltrazione mafiosa (desumibili anche da provvedimenti di condanna non definitivi). L’informazione antimafia è richiesta per contratti o provvedimenti di valore: pari o superiore a quello determinato dalla legge in attuazione delle direttive europee in materia di opere e lavori pubblici, servizi pubblici e pubbliche forniture, indipendentemente dai casi di esclusione ivi indicati; superiore a 150.000 euro per la concessione di acque pubbliche o beni demaniali o contributi, finanziamenti o agevolazioni; superiore a 150.000 euro per subcontratti, cessioni o cottimi concernenti la realizzazione di opere o lavori pubblici o la prestazione di servizi o forniture pubbliche.
Ai sensi dell’art. 85 la documentazione antimafia deve riferirsi al titolare e al direttore tecnico, nel caso di imprese individuali, al legale rappresentante delle associazioni di imprese e al legale rappresentante, agli amministratori, al socio unico o al socio di maggioranza delle società di capitali, a tutti i soci delle società semplici, ai soci accomandatari delle società in accomandita semplice, ai soci persone fisiche delle società personali o di capitali socie di società personali.
La documentazione antimafia è acquisita mediante consultazione della banca dati nazionale unica istituita presso il Ministero dell’interno ai sensi dell’art.96. La banca dati, ai sensi dell’art.97, può essere consultata dai soggetti indicati nell’art.83, comma 1, dalle camere di commercio, dagli ordini professionali, dall’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici.
Gli artt.88 e 92 prevedono che il rilascio rispettivamente della comunicazione e delle informazioni antimafia liberatorie sia immediatamente conseguente alla consultazione della banca dati nazionale unica da parte dei soggetti autorizzati qualora non emerga la sussistenza di cause ostative. Qualora viceversa emergano cause ostative o il soggetto non sia censito, il prefetto procede alle conseguenti verifiche entro trenta giorni dalla consultazione (il termine, nel caso delle informazioni antimafia, è prorogabile di quarantacinque giorni mediante comunicazione del prefetto alle amministrazioni interessate).
Decorso il termine (o anche, in caso di urgenza, immediatamente, per quanto concerne le informazioni antimafia), le amministrazioni procedono in assenza della comunicazione o delle informazioni: in tal caso, i contributi, agevolazioni o erogazioni sono corrisposti sotto condizione risolutiva e le amministrazioni revocano le autorizzazioni e le concessioni e recedono dai contratti, fatto salvo il pagamento delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute, nei limiti delle utilità conseguite.
Ai sensi dell’art.94, comma 1, qualora emerga la sussistenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto o di un tentativo di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate i soggetti cui sono fornite le informazioni antimafia non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, né autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni.
L’art.94-bis prevede che il prefetto, qualora accerti che i tentativi di infiltrazione mafiosa sono riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale, prescrive all’impresa con provvedimento motivato, l’osservanza, per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a dodici mesi, misure amministrative di prevenzione collaborativa (adozione di misure organizzative volte a rimuovere e prevenire le cause di agevolazione occasionale; obbligo di comunicazione di determinati atti od operazioni; utilizzo di un conto corrente dedicato).
La comunicazione e l’informazione antimafia possono essere sostituite (e devono obbligatoriamente esserlo nel caso di attività a rischio di infiltrazione mafiosa) dall’iscrizione nella cd. “white list” istituita presso ciascuna prefettura.
L’art.1, comma 52, della legge n.190 del 2012 prevede che, per le attività maggiormente esposte al rischio di infiltrazione mafiosa, la comunicazione e l’informazione antimafia sia acquisita, indipendentemente dalle soglie stabilite dal codice antimafia, obbligatoriamente mediante la consultazione di un apposito elenco di operatori economici non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa istituito presso ciascuna prefettura (white list). L’iscrizione nella white list tiene luogo della comunicazione e dell’informazione antimafia anche per attività diverse da quelle per cui essa è prevista.
Ai sensi del successivo comma 53 sono considerate a rischio di infiltrazione mafiosa le seguenti attività: estrazione, fornitura e trasporto di terra e materiali inerti; confezionamento, fornitura e trasporto di calcestruzzo e di bitume; noli a freddo di macchinari; fornitura di ferro lavorato; noli a caldo; autotrasporti per conto di terzi; guardiania dei cantieri; servizi funerari e cimiteriali; ristorazione, gestione delle mense e catering; servizi ambientali, comprese le attività di raccolta, di trasporto nazionale e transfrontaliero, anche per conto di terzi, di trattamento e di smaltimento dei rifiuti, nonché le attività di risanamento e di bonifica e gli altri servizi connessi alla gestione dei rifiuti. Il predetto elenco di attività può essere aggiornato annualmente con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con i Ministri della giustizia, delle infrastrutture e dei trasporti e dell’economia e delle finanze, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti.
Le modalità per l’istituzione e l’aggiornamento delle white list sono definite con DPCM 18 aprile 2013.
Sul versante della documentazione antimafia, il co.1 lett. a) reca una modifica al comma 2 dell’art.85 del d.lgs. n.159 del 2011, che nel testo vigente individua i soggetti ai quali deve riferirsi la documentazione antimafia nel caso di associazioni, imprese, società, consorzi e raggruppamenti temporanei di imprese. La modifica introdotta dalla disposizione in commento è volta a includere nella previsione legislativa anche i contratti di rete, stabilendo che in tal caso la documentazione debba riferirsi alle imprese aderenti al contratto e, ove presente, all’organo comune.
La disciplina del contratto di rete è stata introdotta nel nostro ordinamento con il decreto-legge n.5 del 2009 (convertito, con modificazioni dalla legge n.33 del 2009) art.3 co.4-ter ss.. La disciplina originaria, che ha subito successive modifiche ed integrazioni, si applica al contratto con il quale più imprenditori allo scopo di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività sul mercato, si obbligano, sulla base di un programma comune di rete, a collaborare in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese, ovvero a scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica e tecnologica, ovvero ancora a svolgere in comune una o più attività rientranti nell’oggetto delle rispettive imprese.
Il contratto può prevedere la costituzione di un fondo patrimoniale comune e la nomina di un organo comune incaricato di gestire, in nome e per conto dei partecipanti, l’esecuzione del contratto o di singole parti o fasi dello stesso (cd. elementi facoltativi del contratto di rete).
Il contratto di rete che prevede l’organo comune e il fondo patrimoniale non è dotato di soggettività giuridica, ma è fatta salva la facoltà di acquisto della stessa soggettività ai sensi del co.4-quater ultima parte dell’articolo 3. Secondo tale disposizione, per l’acquisto della soggettività giuridica, il contratto deve essere stipulato per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, ovvero per atto firmato digitalmente a norma dell’articolo 25 del Codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. n.82 del 2005).
La lett.b) inserisce nel codice antimafia l’art.94.1, volto a prevedere l’esclusione di alcuni divieti e decadenze nei confronti delle imprese individuali.
In particolare, il comma 1 del nuovo art.94.1, ferma la competenza esclusiva del giudice di cui all’art.67 co.5 del medesimo codice antimafia, prevede che il prefetto, qualora ritenga sussistenti i presupposti per l’adozione dell’informazione antimafia interdittiva, può escludere l’applicazione di uno o più dei divieti o delle decadenze previste dall’art.67 co.1 del d.lgs. n.159 del 2011 derivanti dall’applicazione in via definitiva di una delle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria di cui al Libro I, Titolo I, Capo II del codice medesimo, qualora per effetto dei predetti divieti o delle decadenze verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento al titolare dell’impresa individuale e alla sua famiglia.
Ai sensi dell’art.67 del codice antimafia, le persone alle quali siano state applicate dall’autorità giudiziaria le misure di prevenzione personali (sorveglianza speciale di pubblica sicurezza; divieto di soggiorno in uno o più comuni; obbligo di soggiorno nel comune di residenza o dimora abituale) non possono ottenere licenze o autorizzazioni di polizia o di commercio, concessioni di beni, opere o servizi pubblici, appalti pubblici, qualunque altra concessione, autorizzazione o abilitazione all’esercizio di attività imprenditoriali, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni da parte dello Stato o di enti pubblici, licenze in materia di armi ed esplosivi. L’applicazione definitiva della misura di prevenzione comporta la decadenza di diritto dalle predette licenze, autorizzazioni, concessioni, abilitazioni ed erogazioni nonché il divieto di concludere contratti pubblici (commi 1 e 2).
I predetti divieti e decadenze operano, su disposizione del tribunale, anche per le persone conviventi con il destinatario della misura di prevenzione nonché per le imprese, associazioni, società e consorzi di cui il destinatario sia amministratore anche di fatto (comma 4).
Il comma 5 prevede che per le licenze ed autorizzazioni di polizia, ad eccezione di quelle relative alle armi, munizioni ed esplosivi, e per gli altri provvedimenti interdittivi le decadenze e i divieti possono essere esclusi dal giudice nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia.
Le misure di prevenzione citate sono applicate dal tribunale, su proposta del procuratore nazionale antimafia, del procuratore distrettuale o del questore, e hanno durata non inferiore a un anno né superiore a cinque anni. Contro la decisione del tribunale il procuratore della Repubblica, il procuratore generale presso la corte d’appello, l’interessato e il suo difensore possono proporre ricorso alla corte d’appello.
Ai sensi del comma 2 del nuovo art.94.1, la mancanza dei mezzi di sostentamento è accertata, su documentata istanza del titolare dell’impresa individuale, all’esito di verifiche effettuate dal gruppo interforze istituito presso la prefettura competente ai sensi dell’articolo 90 del codice antimafia.
L’introduzione della norma trae origine dalla necessità di dare attuazione alla sentenza della Corte costituzionale n.180 del 2022 che, pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 92 del codice antimafia, sollevate in riferimento agli artt.3, 4 e 24 della Costituzione, aveva evidenziato che “stride con il principio di uguaglianza la circostanza che il prefetto non possa valutare, come invece può fare il giudice nei confronti del soggetto destinatario di una misura di prevenzione, l’incidenza degli effetti interdittivi sulle capacità di sostentamento dell’interessato e della sua famiglia”.
Il comma 3 del medesimo art.94.1 prevede che il prefetto, disponendo le esclusioni di cui al comma 1, possa prescrivere all’interessato una o più delle misure amministrative di prevenzione collaborativa previste dall’art.94-bis, (adozione di misure organizzative volte a rimuovere e prevenire le cause di agevolazione occasionale; obbligo di comunicazione al gruppo interforze di determinati atti e operazioni; utilizzo di un conto corrente dedicato), con l’eventuale nomina di un esperto con il compito di svolgere funzioni di supporto finalizzate all’attuazione delle misure di prevenzione collaborativa.
Le misure di prevenzione collaborativa cessano qualora il tribunale disponga il controllo giudiziario e nomini il giudice delegato e l’amministratore giudiziario ex art.35-bis co.2 lett.b) del d.lgs. n.159 del 2011.
Le misure sono annotate in apposita sezione della banca dati nazionale unica, alla quale è precluso l’accesso ai soggetti privati e sono comunicate alla cancelleria del tribunale.
Alla scadenza del termine di durata delle misure, il prefetto, ove accerti, sulla base delle analisi formulate dal gruppo interforze, il venir meno dell’agevolazione occasionale e l’assenza di altri tentativi di infiltrazione mafiosa, rilascia un’informazione antimafia liberatoria ed effettua le conseguenti iscrizioni nella banca dati nazionale unica della documentazione antimafia
Il comma 4 del nuovo art.94.1 prevede, infine, che le disposizioni del medesimo articolo non si applicano nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o, ancorché non definitiva, confermata in grado di appello, per i delitti di cui all’art.51 co.3-bis c.p.p., nonché per truffa a danno dello Stato o di un altro ente pubblico (art.640 co.2 c.p.), e per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art.640 bis c.p.).
Novità in materia di misure di prevenzione personali
Il d.l. n. 48 del 2025, agli articoli 4, 7 e 13, introduce importanti novità in materia di misure di prevenzione personali, novellando gli artt.3 e 10 del d.lgs. n.159 del 2011 e l’art.10 del d.l. 20 n.14 del 2017.
L’art.4 del decreto-legge in esame modifica l’art.3 co.6-bis del d.lgs. n.159 del 2011, che disciplina la misura di prevenzione dell’avviso orale con il divieto di utilizzare piattaforme o servizi informatici e telematici, telefoni cellulari, altri dispositivi per le comunicazioni dati e voce o qualsiasi altro apparato di comunicazione radiotrasmittente. In particolare, il provvedimento normativo lascia invariata la competenza ad adottare i divieti previsti dalla citata norma del codice antimafia nei confronti dei minori ultraquattordicenni al tribunale per i minorenni; per i maggiorenni, invece, attribuisce la competenza al tribunale in composizione monocratica.
La disposizione in esame, introdotta dopo che la Consulta, con la sentenza n.2 del 2023, aveva dichiarato costituzionalmente illegittima per violazione dell’art.15 Cost. l’inclusione dei telefoni cellulari tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente di cui il questore può vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo, prevede un procedimento giurisdizionale (inizialmente rimesso in maniera distinta alla decisione al tribunale per i minorenni a prescindere dall’età dell’interessato) per l’adozione del divieto di utilizzare, in tutto o in parte, piattaforme o servizi informatici e telematici specificamente indicati ovvero del divieto di possedere o utilizzare telefoni cellulari, altri dispositivi per le comunicazioni dati e voce o qualsiasi altro apparato di comunicazione radiotrasmittente. Ora, di fatto, la competenza rimane in capo al tribunale per i minorenni nel caso in cui il destinatario dell’avviso orale e dei divieti richiesti dal questore sia un soggetto minore di diciotto anni che abbia compiuto il quattordicesimo anno d’età, ma viene attribuita al tribunale in composizione monocratica negli altri casi.
La disciplina del procedimento continua ad essere regolata dalle disposizioni vigenti. Al destinatario dell’avviso orale viene notificata la proposta del questore ed è data notizia della facoltà di presentare, personalmente o a mezzo di difensore, memorie o deduzioni al giudice competente per l’applicazione del divieto. Il giudice provvede, entro trenta giorni dal deposito della proposta, con decreto motivato ricorribile per cassazione. Il divieto è disposto dal giudice per una durata non superiore a due anni. La disposizione del divieto si accompagna all’individuazione di modalità applicative compatibili con le esigenze di salute, famiglia, lavoro o studio del destinatario del provvedimento.
L’articolo 7 comma 1 lett. a) del d.l. n.48 del 2025 interviene sull’art.10 co.2 del d.lgs. n.159 del 2011 che disciplina il regime delle impugnazioni delle misure di prevenzione di competenza dell’autorità giudiziaria; nello specifico, viene esteso a 30 giorni, decorrenti dalla comunicazione del provvedimento, il termine per le parti di proporre ricorso in luogo dei 10 giorni previsti dalla disciplina vigente.
L’art. 13 reca disposizioni finalizzate ad estendere l’ambito di applicazione della misura di prevenzione del divieto d’accesso alle aree urbane (c.d. Daspo urbano) con un’ulteriore ipotesi – inserita nel co.2 dell’art.10 del d.l. n.14 del 2017 – che attribuisce al questore la possibilità di emettere la misura di prevenzione in questione anche nei confronti di coloro che risultino denunciati o condannati, pur con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per alcuno dei delitti contro la persona o contro il patrimonio, commessi nelle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze.
Il co.1 lett.b) introduce, inoltre, l’osservanza del divieto di accesso, disposto in caso di condanna per reati contro la persona o il patrimonio commessi nei casi di condanna per reati contro la persona o contro il patrimonio commessi nei luoghi e nelle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze, come ulteriore condizione al rispetto della quale può essere subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena.
Tale modifica consegue alla nuova formulazione dell’art.165 c.p. in tema di concessione della sospensione condizionale della pena, nella parte in cui prevede che, in caso di condanna per reati contro la persona o il patrimonio commessi nelle aree e nelle pertinenze dei trasporti pubblici la concessione della sospensione condizionale della pena debba essere subordinata all’osservanza del divieto di accesso, imposto dal giudice, a luoghi o aree specificamente individuate. Se il divieto di accesso non è osservato, il giudice revoca la sospensione condizionale della pena.
art.165 c.p. Obblighi del condannato
co.8 Nei casi di condanna per reati contro la persona o il patrimonio commessi nelle aree delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e nelle relative pertinenze ovvero nelle aree individuate dai regolamenti di polizia urbana ai fini della tutela del decoro e della sicurezza urbani la concessione della sospensione condizionale della pena è comunque subordinata all’osservanza del divieto, imposto dal giudice, di accedere a luoghi o aree specificamente individuati.
La disposizione estende l’ambito di applicazione dell’arresto in flagranza differita anche al reato di cui all’art.583-quater c.p., quando il fatto è commesso in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico.
L’art.583-quater c.p., al primo comma, punisce le lesioni personali cagionate a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, mentre, al secondo comma, reca le sanzioni nei casi di lesioni cagionate al personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria nell’esercizio o a causa delle funzioni o del servizio, nonché a chiunque svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso, funzionali allo svolgimento di dette professioni, nell’esercizio o a causa di tali attività.
Art.10 – Divieto di accesso
- L’ordine di allontanamento di cui all’articolo 9, comma 1, secondo periodo e comma 2, è rivolto per iscritto dall’organo accertatore, individuato ai sensi dell’articolo 13 della legge 24 novembre 1981, n. 689. In esso sono riportate le motivazioni sulla base delle quali è stato adottato ed è specificato che ne cessa l’efficacia trascorse quarantotto ore dall’accertamento del fatto e che la sua violazione è soggetta alla sanzione amministrativa pecuniaria applicata ai sensi dell’articolo 9, comma 1, aumentata del doppio. Copia del provvedimento è trasmessa con immediatezza al questore competente per territorio con contestuale segnalazione ai competenti servizi sociosanitari, ove ne ricorrano le condizioni.
- Nei casi di reiterazione delle condotte di cui all’articolo 9, commi 1 e 2, il questore, qualora dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza, può disporre, con provvedimento motivato, per un periodo non superiore a dodici mesi, il divieto di accesso ad una o più delle aree di cui all’articolo 9, espressamente specificate nel provvedimento, individuando, altresì, modalità applicative del divieto compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario dell’atto. Il contravventore al divieto di cui al presente comma è punito con l’arresto da sei mesi ad un anno. Il questore può disporre il divieto di accesso di cui al primo periodo anche nei confronti di coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per alcuno dei delitti contro la persona o contro il patrimonio, di cui al libro secondo, titoli XII e XIII, del codice penale, commessi in uno dei luoghi indicati all’articolo 9, comma 1.
- La durata del divieto di cui al comma 2 non può comunque essere inferiore a dodici mesi, né superiore a due anni, qualora le condotte di cui all’articolo 9, commi 1 e 2, risultino commesse da soggetto condannato, con sentenza definitiva o confermata in grado di appello, nel corso degli ultimi cinque anni per reati contro la persona o il patrimonio. Il contravventore al divieto emesso in relazione ai casi di cui al presente comma è punito con l’arresto da uno a due anni. Qualora il responsabile sia soggetto minorenne, il questore ne dà notizia al procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni.
- I divieti di cui ai commi 1, 2 e 3 possono essere disposti anche nei confronti di soggetti minori di diciotto anni che hanno compiuto il quattordicesimo anno di età. Il provvedimento è notificato a coloro che esercitano la responsabilità genitoriale e comunicato al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni competente per il luogo di residenza del minore.
- (abrogato)
- Ai fini dell’applicazione del presente articolo e dell’articolo 9, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il Ministro dell’interno determina i criteri generali volti a favorire il rafforzamento della cooperazione, informativa ed operativa, e l’accesso alle banche dati, tra le Forze di polizia, di cui all’articolo 16 della legge 1° aprile 1981, n.121, e i Corpi e servizi di polizia municipale, nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.
6-bis. Con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono definiti i livelli di accesso alle banche dati di cui al comma 6, anche al fine di assicurare il rispetto della clausola di invarianza finanziaria di cui al medesimo comma 6.
6-ter. Le disposizioni di cui ai commi 1-ter e 1-quater dell’articolo 8 della legge 13 dicembre 1989 n.401, hanno efficacia a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.
6-quater. Nel caso di reati commessi con violenza alle persone o alle cose, compiuti alla presenza di più persone anche in occasioni pubbliche, nonché nel caso del delitto di cui all’articolo 583-quater del codice penale, commesso in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico per i quali è obbligatorio l’arresto ai sensi dell’articolo 380 del codice di procedura penale, quando non è possibile procedere immediatamente all’arresto per ragioni di sicurezza o incolumità pubblica, si considera comunque in stato di flagranza ai sensi dell’articolo 382 del medesimo codice colui il quale, sulla base di documentazione video fotografica dalla quale emerga inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore, sempre che l’arresto sia compiuto non oltre il tempo necessario alla sua identificazione e, comunque, entro le quarantotto ore dal fatto
Modifiche in materia di gestione di aziende e di amministrazione di beni sequestrati e confiscati
L’articolo 7 del d.l. n.48 del 2025, oltre alla modifica del regime di impugnazione avverso le misure di prevenzione personali, interviene sulla gestione delle aziende sequestrate e confiscate, sull’amministrazione di beni immobili abusivi sequestrati e confiscati ed in materia di contributi agli enti locali per la messa in sicurezza e l’efficientamento energetico dei beni destinati con provvedimento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.
La lettera b), in particolare, introduce nell’art.36 del d.lgs. n.159 del 2011, rubricato “Relazione dell’amministratore giudiziario” un nuovo comma 2-bis, con cui dispone che la relazione dell’amministratore giudiziario sui beni sequestrati ne illustri nel dettaglio le caratteristiche tecnico-urbanistiche, evidenziando gli eventuali abusi e descrivendo i possibili impieghi dei beni in rapporto ai vigenti strumenti urbanistici generali. Si prevede, inoltre, una rapida interlocuzione (entro 45 giorni) con gli uffici comunali competenti al fine di comunicare l’esistenza di eventuali abusi e la natura degli stessi. Sono previste disposizioni per i casi di particolare complessità o nei quali si renda necessario il coinvolgimento di altre Amministrazioni o di enti terzi.
La specifica attività di esecuzione delle verifiche tecnico-urbanistiche e di interlocuzione dell’amministratore giudiziario con gli uffici comunali competenti, deve proseguire sino al suo perfezionamento anche dopo il deposito della relativa relazione.
Articolo 36 – Relazione dell’amministratore giudiziario
- L’amministratore giudiziario presenta al giudice delegato, entro trenta giorni dalla nomina, una relazione particolareggiata dei beni sequestrati. La relazione contiene: a)l’indicazione, lo stato e la consistenza dei singoli beni ovvero delle singole aziende, nonché i provvedimenti da adottare per la liberazione dei beni sequestrati; b) il presumibile valore di mercato dei beni quale stimato dall’amministratore stesso; c) gli eventuali diritti di terzi sui beni sequestrati; d) in caso di sequestro di beni organizzati in azienda, l’indicazione della documentazione reperita e le eventuali difformità tra gli elementi dell’inventario e quelli delle scritture contabili; e) l’indicazione delle forme di gestione più idonee e redditizie dei beni, anche ai fini delle determinazioni che saranno assunte dal tribunale ai sensi dell’articolo 41
2. La relazione di cui al comma 1 indica anche le eventuali difformità tra quanto oggetto della misura e quanto appreso, nonché l’esistenza di altri beni che potrebbero essere oggetto di sequestro, di cui l’amministratore giudiziario sia venuto a conoscenza.
2-bis. Nella relazione di cui al comma 1, l’amministratore giudiziario illustra, altresì, in dettaglio, le caratteristiche tecnico-urbanistiche dei beni immobili, evidenziando, in particolare, la sussistenza di eventuali abusi nonché i possibili impieghi dei cespiti in rapporto ai vigenti strumenti urbanistici generali, anche ai fini delle valutazioni preordinate alla destinazione dei beni. A tale scopo l’amministratore giudiziario formula, se necessario, apposita istanza ai competenti uffici comunali che la riscontrano entro e non oltre 45 giorni dalla richiesta, dando comunicazione dell’eventuale sussistenza di abusi e della natura degli stessi. Qualora la verifica risulti di particolare complessità o si renda necessario il coinvolgimento di altre Amministrazioni o di enti terzi, i competenti uffici comunali forniscono all’amministratore giudiziario, entro il predetto termine di 45 giorni, le risultanze dei primi accertamenti e le informazioni in merito alle ulteriori azioni avviate e sono successivamente tenuti a comunicare gli esiti del procedimento.
- Ove ricorrano giustificati motivi, il termine per il deposito della relazione può essere prorogato dal giudice delegato per non più di novanta giorni. L’amministratore giudiziario, proseguendo se necessario l’interlocuzione con i compenti uffici comunali sino al termine del procedimento di verifica di cui al comma 2-bis, assicura comunque il completamento delle verifiche tecnico-urbanistiche anche dopo l’avvenuto deposito della relazione, provvedendo a comunicare gli esiti relativi. Successivamente l’amministratore giudiziario redige, con la frequenza stabilita dal giudice, una relazione periodica sull’amministrazione, che trasmette anche all’Agenzia, esibendo, ove richiesto, i relativi documenti giustificativi.
- La cancelleria dà avviso alle parti del deposito della relazione dell’amministratore giudiziario ed esse possono prenderne visione ed estrarne copia limitatamente ai contenuti di cui alla lettera b) del comma 1. Ove siano formulate contestazioni motivate sulla stima dei beni entro venti giorni dalla ricezione dell’avviso, il tribunale, se non le ritiene inammissibili, sentite le parti, procede all’accertamento del presumibile valore di mercato dei beni medesimi nelle forme della perizia ai sensi degli articoli 220 e seguenti del codice di procedura penale. Fino alla conclusione della perizia, la gestione prosegue con le modalità stabilite dal giudice delegato.
La lettera c) modifica l’art.38 del d.lgs. n.159 del 2011, aggiungendo il comma 3-bis, che prevede che le modalità di calcolo e di liquidazione dei compensi dei coadiutori dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC) siano individuate con decreto, di natura regolamentare, del Ministero dell’interno, da adottarsi di concerto con i Ministri dell’economia e delle finanze e della giustizia. Si prevede che dall’attuazione di tale regolamento non debbano derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
L’intervento mira a colmare una lacuna intervenuta a seguito dell’approvazione della legge 1 dicembre 2018, n.132. Infatti, mentre l’originaria formulazione del d.lgs. n.159 del 2011 stabiliva che i coadiutori dell’Agenzia venissero retribuiti con i criteri di calcolo utilizzati per gli amministratori giudiziari (successivamente definiti con D.P.R. 7 ottobre 2015, n.177), la novella del 2018 ha eliminato tale aggancio normativo, nulla disponendo in merito, con il conseguente venir meno di un riferimento certo per determinare il compenso dei coadiutori ANBSC.
La lettera d) dispone l’introduzione, all’art.40 del d.lgs. n.159 del 2011 (Gestione dei beni sequestrati), di un nuovo comma 1-bis, il quale stabilisce che se nell’ambito dell’accertamento tecnico-urbanistico di cui all’art.36 co.2-bis, viene accertata la sussistenza di abusi non sanabili, con il provvedimento di confisca il giudice ne ordina la demolizione in danno del soggetto destinatario del provvedimento; si stabilisce, inoltre, che il bene non venga acquisito al patrimonio dell’erario e che l’area di sedime sia acquisita al patrimonio indisponibile del Comune territorialmente competente. Si applica la disciplina dettata dal Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001 n.380) per interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici.
L’area di sedime corrisponde alla proiezione orizzontale della parte fuori terra di un edificio, ad esclusione delle strutture aggettanti, come balconi e pensiline.
La lettera e) modifica l’articolo 41 del decreto legislativo n. 159 del 2011, relativo alla gestione delle aziende sequestrate, intervenendo sul meccanismo di valutazione della prosecuzione o ripresa dell’attività aziendale da parte del Giudice delegato. Viene aggiunto il comma 1-novies, che introduce la verifica da parte del Tribunale, con cadenza almeno annuale, del perdurare delle concrete prospettive di prosecuzione o di ripresa dell’attività di impresa, sulla base delle quali il Giudice delegato ha approvato il programma di prosecuzione o di ripresa dell’attività di impresa ai sensi del comma 1-sexies.
Si aggiunge, inoltre, il comma 5-bis, con cui si integra quanto già disposto dal comma 5 del medesimo articolo 48, relativamente alla messa in liquidazione dell’impresa da parte del Tribunale in caso di mancanza di concrete possibilità di prosecuzione o di ripresa dell’attività. Il nuovo comma 5-bis prevede che se mancano concrete possibilità di prosecuzione o di ripresa e se l’impresa è priva di patrimonio utilmente liquidabile, il Tribunale lo comunica all’ufficio del registro delle imprese, che ne dispone la cancellazione entro 60 giorni.
La lettera f) prevede l’introduzione del comma 2-ter dell’articolo 44 del d.lgs. n.159 del 2011, disponendo che l’Agenzia provveda alle comunicazioni di cui al nuovo comma 5-bis dell’art.41 anche a seguito del decreto di confisca emanato dalla Corte d’Appello, previo nulla osta del Giudice delegato.
Con la lettera g) si aggiunge il comma 1-bis all’articolo 45-bis del d.lgs. n.159 del 2011, rubricato “Liberazione degli immobili e delle aziende”. La disposizione prevede che, dopo il provvedimento definitivo di confisca, non possano prestare lavoro presso l’impresa confiscata i soggetti che sono parenti, coniugi, affini o conviventi con il destinatario della confisca, o coloro che sono stati condannati, anche in primo grado, per il reato di cui all’articolo 416-bis del codice penale (associazioni di tipo mafioso). I contratti sono risolti ex lege.
La lettera h) aggiunge il comma 15-quater.1 all’articolo 48 del d.lgs. n.159 del 2011, relativo alla destinazione dei beni e delle somme. La nuova disposizione prevede che, qualora nel procedimento finalizzato alla destinazione del bene sia accertata la sussistenza di abusi non sanabili, l’Agenzia promuova incidente di esecuzione, ai sensi dell’art.666 c.p.p., per avviare il procedimento di cui all’articolo 40, comma 1-bis, con cui il giudice dispone la demolizione del bene.
L’articolo 666 del codice di procedura penale, che disciplina le forme del procedimento di esecuzione, prevede che il giudice dell’esecuzione non possa agire d’ufficio, bensì solo su impulso del pubblico ministero, dell’interessato o del suo difensore. Per quanto concerne tale forma di intervento, il legislatore ha previsto due modelli di incidente d’esecuzione: il procedimento ordinario, che prevede l’instaurazione del contraddittorio tra le parti, e un procedimento semplificato, definito de plano dal giudice, in cui il contraddittorio è solo eventuale e differito alla fase dell’opposizione.
Al fine di evitare che il provvedimento di sequestro di prevenzione possa essere iscritto nei pubblici registri prima della sua esecuzione, determinando la “disclosure” della misura cautelare, la lettera i) modifica il comma 1 dell’art.51-bis stabilendo che l’iscrizione dei provvedimenti giudiziari nel registro delle imprese avvenga non più “al deposito in cancelleria”, bensì entro il giorno successivo “all’esecuzione del provvedimento”. La stessa lett.h) introduce, inoltre, il comma 1-bis, il quale prevede che il Tribunale e l’ANBSC richiedano l’iscrizione gratuita presso il registro delle imprese delle modifiche riguardanti le imprese sequestrate e confiscate derivanti dalla loro amministrazione.
Sulla base della modifica apportata dalla lett.l) al co.2 dell’art.54 del d.lgs. n.159 del 2011, i crediti prededucibili aziendali sorti dopo il sequestro aziendale in conseguenza o in ragione della procedura fallimentare (cioè in seguito agli atti compiuti dal curatore dopo la dichiarazione di fallimento) sono soddisfatti mediante prelievo delle somme disponibili nel relativo patrimonio aziendale.
Infine, la messa in sicurezza e l’efficientamento energetico dei beni destinati all’ente locale con provvedimento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC) sono ora ricompresi nell’ordine prioritario dei contributi assegnati annualmente agli enti territoriali.
Le modifiche relative alla concessione dei benefici ai superstiti delle vittime della criminalità organizzata
L’articolo 5 reca disposizioni in materia di condizioni per la concessione dei benefici ai superstiti delle vittime della criminalità organizzata, con particolare riferimento all’esclusione dai benefici dei parenti o affini entro il quarto grado di soggetti destinatari di misure di prevenzione o sottoposti al relativo procedimento o a procedimento penale per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p..
Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n.122 del 2024, viene al contempo precisato che l’esclusione non si applica qualora risulti che il beneficiario al momento dell’evento abbia interrotto definitivamente le relazioni familiari e affettive e i rapporti di interessi e sociali con i predetti soggetti, ovvero non abbia attuali rapporti di concreta frequentazione con i medesimi.
Modifiche in materia di protezione di collaboratori e testimoni di giustizia
L’articolo 6 introduce alcune disposizioni in materia di protezione di collaboratori e testimoni di giustizia, in particolare per quanto concerne il rilascio e l’utilizzo di documenti e identità fiscali di copertura.
L’autorizzazione al rilascio del documento di copertura è data dal Servizio Centrale di protezione il quale chiede alle autorità competenti al rilascio, che non possono opporre rifiuto, di predisporre il documento e di procedere alle registrazioni previste dalla legge e agli ulteriori adempimenti eventualmente necessari. Presso il citato Servizio di protezione è tenuto un registro riservato attestante i tempi, le procedure e i motivi dell’autorizzazione al rilascio del documento.
Il comma 1, lett.a) della disposizione in commento modifica il co.10 dell’art.13 del d.l. n.8 del 1991, prevedendo:
l’utilizzazione del documento di copertura anche da parte dei collaboratori e dei loro familiari sottoposti alla misura cautelare degli arresti domiciliari (art.284 c.p.p.) o che fruiscano della detenzione domiciliare ai sensi dell’art.16-nonies del medesimo d.l. n.8 del 1991, al fine di garantire la sicurezza, la riservatezza e il reinserimento sociale delle persone sottoposte a speciale programma di protezione;
l’utilizzazione del documento di copertura e la creazione di identità fiscali di copertura, anche di tipo societario, da parte del Servizio centrale di protezione e con collaborazione delle autorità e degli altri soggetti competenti, qualora ciò si renda necessario per il compimento di particolari atti o per svolgere specifiche attività di natura riservata e al fine di garantire la sicurezza, la riservatezza e il reinserimento sociale delle persone sottoposte a speciale programma di protezione e la funzionalità, la riservatezza e la sicurezza delle speciali misure di protezione.
Come evidenziato dalla Relazione illustrativa, la ratio dell’intervento muove dall’intento di elevare ulteriormente il livello di protezione assicurato ai soggetti che collaborano con la giustizia, incidendo su quei profili che possono rappresentare delle criticità per la consistenza e l’efficienza del “sistema di protezione”.
Modifiche agli “articoli pirotecnici”
L’articolo 8 modifica la definizione di “articolo pirotecnico”, contenuta nell’art.2 comma 1 lett.a) del d.lgs. 29 luglio 2015, n.123 che disciplina la libera circolazione di tali beni, dovendosi considerare per tale qualsiasi articolo contenente sostanze esplosive o una miscela esplosiva di sostanze destinato a produrre un effetto calorifico, luminoso, sonoro, gassoso o fumogeno o una combinazione di tali effetti grazie a reazioni chimiche esotermiche auto mantenute.
La proposta emendativa in oggetto trova quindi il suo fondamento nella necessità di adeguare l’ordinamento interno alla normativa unionale che, con la rettifica della direttiva 2013/29/UE, ha coniato una nuova definizione di articolo pirotecnico, finalizzata ad assicurare controlli di polizia più mirati e coerenti.
Modifiche in materia di revoca della cittadinanza
L’articolo 9, concernente le ipotesi di revoca della cittadinanza italiana in caso di condanna definitiva per i reati di terrorismo ed eversione ed altri gravi reati, introdotte nel 2018 (art.10-bis della legge n.91 del 1992), stabilisce che non si può procedere alla revoca ove l’interessato non possieda un’altra cittadinanza ovvero non ne possa acquisire altra. Al contempo, è esteso da tre a dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna il termine per poter adottare il provvedimento di revoca.
Si tratta, in particolare:
- dei delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale per i quali la legge prevede la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a 5 anni o nel massimo a 10 anni (art.407 co.2 lett.a, n.4);
- della ricostituzione, anche sotto falso nome o in forma simulata, di associazioni sovversive delle quali sia stato ordinato lo scioglimento (art.407 co.1 lett.a n.4, che rinvia all’art.270 co.3 c.p.);
- della partecipazione a banda armata (art.407 co.1 lett.a n.4, che rinvia all’art.306 co.2 c.p.);
- dell’assistenza agli appartenenti ad associazioni sovversive o associazioni con finalità di terrorismo, anche internazionale (art.270-ter c.p.), fattispecie espressamente richiamata dal legislatore in quanto, per l’entità della pena prevista, non rientra nel catalogo di delitti di cui all’art. 407 co.2, lett.a n.4 c.p.p.;
- della sottrazione di beni o denaro sottoposti a sequestro per prevenire il finanziamento del terrorismo (art.270-quinquies.2 c.p.). Anche questa fattispecie è espressamente richiamata dal legislatore in quanto, per l’entità della pena prevista, non rientra nel catalogo di delitti di cui all’art.407 co.2, lett.a n.4 c.p.p.
La revoca della cittadinanza è adottata con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno. Le fattispecie di revoca sono applicabili solo nel caso in cui la cittadinanza italiana sia stata acquisita per matrimonio (art.5 della legge n.91 del 1992), per naturalizzazione (art.9), ovvero ai sensi dell’art.4 co.2 della medesima legge. Quest’ultima ipotesi riguarda i casi di acquisto della cittadinanza dello straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età. Tale revoca è pertanto esclusa per i cittadini italiani iure sanguinis.
L’opzione normativa è dettata dalla necessità di prevenire situazioni di apolidia, che, invece, verrebbero a crearsi laddove, in caso di revoca della cittadinanza italiana, l’interessato non possieda o non possa acquisire altra cittadinanza. In tal modo s’intende garantire il rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui casi di apolidia, fatta a New York il 30 agosto 1961, che prevede che uno Stato contraente non possa privare una persona della cittadinanza quando tale perdita renda la persona apolide, fatte salve alcune circostanze. La medesima Convenzione subordina la perdita della cittadinanza in casi specifici, ove prevista dalla legge di uno Stato contraente, al possesso o all’acquisizione di un’altra cittadinanza.
Disposizioni in materia di sicurezza urbana
– il contrasto all’occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui
L’ art. 10 introduce norme volte a contrastare l’occupazione abusiva di immobili, introducendo il reato di occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui (o delle relative pertinenze) e una procedura d’urgenza per il rilascio dell’immobile e la conseguente reintegrazione nel possesso.
A tal fine, esso prevede l’inserimento nel codice penale, nell’ambito dei delitti contro il patrimonio (Libro II, Titolo XIII), l’inserimento di una modifica nell’art.639 bis c.p. ed un nuovo articolo 634 bis (Occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui) e l’introduzione nel codice di procedura penale del nuovo articolo 321-bis (Reintegrazione nel possesso dell’immobile).
L’art.634-bis c.p. punisce con la reclusione da 2 a 7 anni (co.1)
– chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze, ovvero impedisce il rientro del proprietario o di colui che lo detiene legittimamente (primo periodo);
– chiunque si appropria con artifizi o raggiri di un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze, ovvero cede ad altri l’immobile occupato (secondo periodo).
Soggiace alla stessa pena, chiunque, fuori dai casi di concorso, si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile, ovvero riceve o corrisponde denaro o altra utilità per l’occupazione (co.2 c.p.).
Il delitto introdotto è punibile a querela della persona offesa, ma diviene perseguibile d’ufficio nei casi in cui il fatto sia commesso ai danni di una persona incapace, per età o per infermità (co.4 e 5 c.p.).
La disposizione, probabilmente per effetto di un mancato coordinamento, si riferisce alle pertinenze dell’immobile solo con riguardo alla condotta di cui al primo comma, nulla disponendo in merito alla cooperazione nell’occupazione dell’immobile, di cui al secondo comma, o alla causa di non punibilità prevista dal terzo comma.
Art.634-bis (Occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui).
Chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze, ovvero impedisce il rientro nel medesimo immobile del proprietario o di colui che lo detiene legittimamente, è punito con la reclusione da due a sette anni. Alla stessa pena soggiace chiunque si appropria di un immobile destinato a domicilio altrui o di sue pertinenze con artifizi o raggiri ovvero cede ad altri l’immobile occupato.
Fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile, ovvero riceve o corrisponde denaro o altra utilità per l’occupazione medesima, soggiace alla pena prevista dal primo comma.
Non è punibile l’occupante che collabori all’accertamento dei fatti e ottemperi volontariamente all’ordine di rilascio dell’immobile.
Il delitto è punito a querela della persona offesa.
Si procede d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità
Anche nel caso del delitto in parola l’art.10 co.2 del d.l. n.48 del 2025 stabilisce (con la richiamata modifica dell’art.639 bis c.p.) che si proceda d’ufficio – al pari di quanto previsto dalla norma vigente per i delitti di usurpazione (art.631 c.p.), deviazione di acque e modificazione dello stato dei luoghi (art.632 c.p.) e invasione di terreni o edifici (art.633 c.p.) – se il fatto riguarda acque, terreni, fondi o edifici pubblici ovvero destinati al pubblico.
Come precisato dalla relazione illustrativa, con le disposizioni in esame “si potenziano gli strumenti di contrasto delle occupazioni abusive degli immobili previsti dal quadro normativo previgente, secondo il quale, infatti, il fenomeno delle predette occupazioni si configura quale illecito civile (che obbliga l’autore alla restituzione e al risarcimento del danno) oltre che come reato, punibile – ai sensi dell’articolo 633 c.p. – con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 103 a euro 1032”.
L’art.633 c.p. (Invasione di terreni o di edifici) punisce con la reclusione da 1 a 3 anni e con la multa da euro 103 a euro 1.032 chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto. Il delitto è punibile a querela (co.1).
Si applica la pena della reclusione da 2 a 4 anni e della multa da euro 206 a euro 2064 e si procede d’ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone o da persona palesemente armata (co.2).
La pena per i promotori e gli organizzatori è aumentata fino a un terzo se il fatto è commesso da due o più persone (co.3).
L’art.633-bis (Invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica), introdotto dall’art.5 co.1, del d.l. n.162 del 2022, convertito con modificazioni dalla legge n.199 del 2022 (c.d. “decreto rave party”) punisce con la reclusione da 3 a 6 anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000 chiunque organizza o promuove l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di realizzare un raduno musicale o avente altro scopo di intrattenimento, quando dall’invasione deriva un concreto pericolo per la salute pubblica o per l’incolumità pubblica a causa dell’inosservanza delle norme in materia di sostanze stupefacenti ovvero in materia di sicurezza o di igiene degli spettacoli e delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento, anche in ragione del numero dei partecipanti ovvero dello stato dei luoghi (co.1).
È sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato di cui al primo comma, nonché di quelle utilizzate per realizzare le finalità dell’occupazione o di quelle che ne sono il prodotto o il profitto (co.2).
L’art.634 c.p. (Turbativa violenta del possesso di cose immobili) punisce con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309 chiunque, fuori dei casi indicati negli articoli 633 e 633-bis, turba, con violenza alla persona o con minaccia, l’altrui pacifico possesso di cose immobili. Il delitto è punibile a querela. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. Si procede d’ufficio se la persona offesa è incapace, per età o per infermità.
L’art.10 co.3 prevede l’inserimento dell’art.321-bis c.p.p., volto a disciplinare il procedimento per la reintegrazione nel possesso dell’immobile.
Il co.1 dell’art.321-bis c.p.p. prevede che, su richiesta del pubblico ministero, il giudice competente – ovvero prima dell’esercizio dell’azione penale il giudice per le indagini preliminari – dispone (co.1) con decreto motivato il rilascio dell’immobile o delle pertinenze oggetto di occupazione arbitraria ex art.634-bis c.p. (deve, dunque, trattarsi di immobile destinato a domicilio altrui).
I commi successivi disciplinano la procedura di rilascio coattivo e di reintegrazione nel possesso ad opera della polizia giudiziaria, previa autorizzazione del pubblico ministero e successiva convalida da parte del giudice, nel caso in cui l’immobile occupato sia l’unica abitazione effettiva del denunciante.
Gli ufficiali di polizia giudiziaria che ricevono la denuncia dell’occupazione, espletati i primi accertamenti tesi a verificare la sussistenza dell’arbitrarietà dell’occupazione medesima, si recano senza ritardo (co.2) presso l’immobile al fine di svolgere le attività di cui all’art.55 c.p.p., consistenti nel
a) prendere notizia dei reati;
b) impedire che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori;
c) ricercare gli autori;
d) compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale
Nel caso in cui sussistano fondati motivi per ritenere l’arbitrarietà dell’occupazione, gli ufficiali di polizia giudiziaria ordinano all’occupante l’immediato rilascio dell’immobile e contestualmente procedono a reintegrare il denunciante nel possesso (co.3).
Nel caso in cui non sia possibile ottenere l’esecuzione spontanea dell’ordine di rilascio da parte dell’occupante per diniego all’accesso, resistenza, rifiuto o assenza, gli ufficiali di polizia giudiziaria – sempre che sussistano fondati motivi per ritenere l’arbitrarietà dell’occupazione – dispongono coattivamente il rilascio dell’immobile e reintegrano il denunciante nel possesso, previa autorizzazione del pubblico ministero. Tale autorizzazione può essere scritta, resa oralmente e confermata per iscritto oppure resa per via telematica (co.4).
Delle attività svolte dalla polizia giudiziaria è redatto verbale, con l’indicazione dei motivi del provvedimento di rilascio. Copia del verbale è consegnata al destinatario del provvedimento di rilascio (co.5).
Il verbale è trasmesso entro 48 ore al pubblico ministero del luogo in cui ha avuto luogo la reintegrazione nel possesso. Il PM, entro le successive 48 ore dalla ricezione del verbale, salvo che ritenga di disporre la restituzione dell’immobile al destinatario del provvedimento di rilascio, chiede al giudice la convalida e l’emissione di un decreto di reintegrazione nel possesso (co.6).
La reintegrazione nel possesso perde efficacia se non sono osservati i predetti termini di trasmissione del verbale al pubblico ministero e di richiesta di convalida al giudice ovvero se il giudice non emette l’ordinanza di convalida entro 10 giorni dalla ricezione della richiesta del PM. Copia dell’ordinanza è immediatamente notificata all’occupante (co.7).
Art. 321-bis (Reintegrazione nel possesso dell’immobile).
- Su richiesta del pubblico ministero il giudice competente dispone con decreto motivato la reintegrazione nel possesso dell’immobile o delle sue pertinenze oggetto di occupazione arbitraria ai sensi dell’articolo 634-bis del codice penale. Prima dell’esercizio dell’azione penale, provvede il giudice per le indagini preliminari.
- Nei casi in cui l’immobile occupato sia l’unica abitazione effettiva del denunciante, gli ufficiali di polizia giudiziaria che ricevono denuncia del reato di cui all’articolo 634-bis del codice penale, espletati i primi accertamenti volti a verificare la sussistenza dell’arbitrarietà dell’occupazione, si recano senza ritardo presso l’immobile del quale il denunziante dichiara di essere stato spossessato, al fine di svolgere le attività di cui all’articolo 55.
- Gli ufficiali di polizia giudiziaria, ove sussistano fondati motivi per ritenere l’arbitrarietà dell’occupazione, ordinano all’occupante l’immediato rilascio dell’immobile e contestualmente reintegrano il denunciante nel possesso dell’immobile medesimo.
- In caso di diniego dell’accesso, di resistenza, di rifiuto di eseguire l’ordine di rilascio o di assenza dell’occupante, gli ufficiali di polizia giudiziaria, ove sussistano fondati motivi per ritenere l’arbitrarietà dell’occupazione, dispongono coattivamente il rilascio dell’immobile e reintegrano il denunciante nel possesso del medesimo, previa autorizzazione del pubblico ministero, scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto, o per via telematica.
- Gli ufficiali di polizia giudiziaria redigono verbale delle attività svolte, enunciando i motivi del provvedimento di rilascio dell’immobile. Copia del verbale è consegnata alla persona destinataria dell’ordine di rilascio.
- Nelle quarantotto ore successive gli ufficiali di polizia giudiziaria trasmettono il verbale al pubblico ministero competente per il luogo in cui la reintegrazione del possesso è avvenuta; questi, se non dispone la restituzione dell’immobile al destinatario dell’ordine di rilascio, richiede al giudice la convalida e l’emissione di un decreto di reintegrazione nel possesso entro quarantotto ore dalla ricezione del verbale.
- La reintegrazione nel possesso perde efficacia se non sono osservati i termini previsti dal comma 6 ovvero se il giudice non emette l’ordinanza di convalida entro dieci giorni dalla ricezione della richiesta di cui al medesimo comma 6. Copia dell’ordinanza e del decreto di cui al comma 6 è immediatamente notificata all’occupante
Modifiche al codice penale in materia di circostanze aggravanti comuni e di truffa
L’art. 11, oltre ad introdurre una nuova circostanza aggravante comune, reca ulteriori modifiche al codice penale volte a rendere più incisiva la repressione del fenomeno delle truffe nei confronti delle persone anziane.
Più nel dettaglio, il co.1 introduce nell’articolo 61 c.p. (nuovo numero 11-decies del co.11) la nuova circostanza aggravante comune dell’aver commesso il fatto all’interno nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie o delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto passeggeri. Tale circostanza si applica ai delitti non colposi contro la vita e l’incolumità pubblica e individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio.
Il co.2 incide sull’art.640 c.p., prevedendo la soppressione del numero 2-bis, secondo comma, relativo all’aggravante dell’aver profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa (c.d. minorata difesa, di cui all’art.61 n.5 c.p.) e la contestuale introduzione di un nuovo terzo comma dell’articolo 640 c.p., recante una specifica ipotesi di truffa aggravata. Tale ipotesi si sostanzia nella condotta già prevista dal sopprimendo n.2-bis, alla quale viene ora attribuito autonomo rilievo, nonché un corrispondente inasprimento del relativo trattamento sanzionatorio (reclusione da 2 a 6 anni e multa da euro 700 a euro 3.000) motivato dall’esame dei dati relativi alle vittime di truffe commesse ai danni di persone di età pari o superiore a sessantacinque anni, che condotte hanno subìto un decisivo incremento, passando dai 21.480 del 2020, ai 24.338 del 2021, ai 26.630 del 2022.
Nelle ipotesi di truffa aggravata, disciplinate dal secondo comma dell’art.640 c.p., oltre che dal terzo comma di nuova introduzione, è consentita l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere (art.280 co.2 c.p.p.).
La punibilità del delitto è a querela della persona offesa; si procede, invece, d’ufficio quando ricorre taluna delle circostanze aggravanti indicate. Per questa nuova fattispecie di truffa aggravata è previsto, ai sensi della lett.f.1), introdotta nell’art.380 co.2 c.p.p., l’arresto obbligatorio in flagranza.
Altro intervento normativo, in materia di circonvenzione di persone anziane, è previsto nel disegno di legge A.C. n.1164, già approvato dal Senato, che interviene sull’art.643 c.p., rubricato “Circonvenzione di persone incapaci” ampliando la fattispecie tipica del “procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di un minore, ovvero abusando dello stato d’infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto, che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso”, prevedendo che si configuri il reato di circonvenzione di incapace anche nel caso in cui l’induzione della persona a compiere un atto dannoso per lei o per altri avvenga abusando delle condizioni di vulnerabilità, anche dovute all’età avanzata.
La pena è la reclusione da 2 a 6 anni e la multa da 206 a 2.065 euro.
Modifiche in materia di accattonaggio
L’articolo 16 introduce modifiche all’articolo 600-octies c.p., relativo al reato di impiego di minori nell’accattonaggio, prevedendo che sia punito l’impiego nell’accattonaggio di minori fino ai sedici anni di età (non più fino ai quattordici anni) ed innalzando la pena per tali condotte da uno a cinque anni di reclusione, in luogo dei tre anni attualmente previsti come massimo edittale.
Cambia anche la rubrica dell’articolo, con l’aggiunta del riferimento al favoreggiamento, all’induzione e alla costrizione all’accattonaggio.
L’art.600-octies c.p. è stato inserito dalla legge 15 luglio 2009, n.94, che ha contestualmente rimosso il disposto dell’art.671 c.p. a seguito della scelta del legislatore di mutare la qualifica dell’impiego di minori nell’accattonaggio da contravvenzione a delitto.
La norma in commento punisce le condotte di chi sfrutti minori o incapaci per l’accattonaggio, o comunque permetta che altri se ne avvalgano. Il bene giuridico tutelato è la libertà psico-fisica del minore o del non imputabile. I soggetti tutelati, dunque, sono i minori degli anni quattordici, ritenuti incapaci di intendere e di volere, oltre ad ogni altra persona incapace di intendere e di volere per causa diversa dall’età.
La norma trova applicazione qualora il fatto non costituisca più grave reato, ad esempio la riduzione in schiavitù ai sensi dell’art. 600 c.p.
Il delitto di cui all’art. 600-octies, primo comma, relativo all’impiego di minori nell’accattonaggio, prevede tre diverse modalità di realizzazione della condotta: avvalersi per mendicare di una persona minore degli anni quattordici o, comunque, non imputabile; permettere che tale persona, ove sottoposta alla autorità o affidata alla custodia o vigilanza del soggetto attivo, mendichi; ovvero permettere che altri se ne avvalga per mendicare.
È un reato in forma commissiva per quanto riguarda lo sfruttamento, mentre ha natura omissiva per quanto concerne il permettere che altri si avvalga dell’altrui accattonaggio, qualora sussista un obbligo giuridico di impedire l’evento. In tal modo si rende punibile, ad esempio, sia il genitore che sfrutti il minore, sia il genitore che nulla faccia per impedirlo, sottoponendoli alla medesima cornice edittale.
Come conseguenza dell’innalzamento dei limiti edittali di pena, gli autori di tali condotte potranno essere sottoposti alle misure cautelari personali, sia di natura interdittiva che coercitiva. In particolare, con riferimento a queste ultime, diventa applicabile al reato in oggetto anche la misura della custodia cautelare in carcere, ai sensi dell’articolo 280 del codice di procedura penale.
La lett.b) del comma 1 dell’art.16 interviene sul secondo comma dell’articolo 600-octies c.p., introducendo quale ulteriore condotta integrativa della fattispecie di reato l’induzione all’accattonaggio, in aggiunta alle condotte, già previste dal secondo comma, di chi organizzi, si avvalga o favorisca, ai fini di profitto, l’altrui accattonaggio.
È, altresì, previsto un raddoppio dei limiti edittali per le predette fattispecie, (ora reclusione da due a sei anni).
L’età inferiore ad anni sedici della persona offesa è invece prevista espressamente come circostanza aggravante ad effetto speciale, introdotta nello stesso secondo comma dall’articolo in esame, per la quale si prevede un aumento di pena da un terzo fino alla metà. Tale aumento è previsto anche se il fatto è commesso con violenza o minaccia o nei confronti di persona non imputabile.
Art.600-octies. Impiego di minori nell’accattonaggio. Organizzazione e favoreggiamento dell’accattonaggio. Induzione e costrizione all’accattonaggio.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque si avvale per mendicare di una persona minore degli anni sedici quattordici o, comunque, non imputabile, ovvero permette che tale persona, ove sottoposta alla sua autorità o affidata alla sua custodia o vigilanza, mendichi, o che altri se ne avvalga per mendicare, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
Chiunque induca un terzo all’accattonaggio, organizzi l’altrui accattonaggio, se ne avvalga o comunque lo favorisca a fini di profitto è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata da un terzo alla metà se il fatto è commesso con violenza o minaccia o nei confronti di persona minore degli anni sedici o comunque non imputabile.
Modifica dell’art.635 c.p. in materia di danneggiamento in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico
L’articolo 12 inasprisce le pene per il delitto di danneggiamento in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico qualora il fatto sia commesso con violenza alla persona o minaccia.
L’articolo in commento innova il terzo (in realtà si tratta del quarto comma, in quanto il terzo si riferisce a danneggiamenti all’interno o nelle pertinenze di strutture sanitarie o socio-sanitarie residenziali o semiresidenziali) dell’art.635 c.p., prevedendo che qualora il delitto di danneggiamento in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico sia commesso con violenza alla persona o minaccia si applichi la pena della reclusione da 1 anno e 6 mesi a 5 anni e della multa fino a 15.000 euro.
Per effetto della modifica si configurano due diverse fattispecie di danneggiamento in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico: l’una, “semplice”, punita con la reclusione da 1 a 5 anni e l’altra, con violenza alla persona o minaccia, punita con la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 5 anni e con la multa fino a 15.000 euro.
La sospensione condizionale della pena resta subordinata all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato o, se il condannato non si oppone, alla prestazione di attività non retribuita in favore della collettività per un periodo non superiore alla durata della pena sospesa.
Art.635 Danneggiamento.
Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui con violenza alla persona o con minaccia ovvero in occasione del delitto previsto dall’articolo 331, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Alla stessa pena soggiace chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili le seguenti cose altrui:
- edifici pubblici o destinati a uso pubblico o all’esercizio di un culto o immobili compresi nel perimetro dei centri storici, ovvero immobili i cui lavori di costruzione, di ristrutturazione, di recupero o di risanamento sono in corso o risultano ultimati o altre delle cose indicate nel numero 7) dell’articolo 625;
- opere destinate all’irrigazione;
- piantate di viti, di alberi o arbusti fruttiferi, o boschi, selve o foreste, ovvero vivai forestali destinati al rimboschimento;
- attrezzature e impianti sportivi al fine di impedire o interrompere lo svolgimento di manifestazioni sportive.
Chiunque, all’interno o nelle pertinenze di strutture sanitarie o socio-sanitarie residenziali o semiresidenziali, pubbliche o private, con violenza alla persona o con minaccia ovvero in occasione delle condotte previste nell’articolo 583-quater, secondo comma, distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui ivi esistenti o comunque destinate al servizio sanitario o socio-sanitario è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa fino a 10.000 euro.
Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa fino a 10.000 euro. Se il fatto è commesso da più persone riunite, la pena è aumentata. Se i fatti di cui al primo periodo sono commessi con violenza alla persona o con minaccia, la pena è della reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni e della multa fino a 15.000 euro.
Per i reati di cui ai commi precedenti, la sospensione condizionale della pena è subordinata all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero, se il condannato non si oppone, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato, comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna.
Nei casi previsti dal primo comma, nonché dal secondo comma, numero 1), limitatamente ai fatti commessi su cose esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, ai sensi dell’articolo 625, primo comma, numero 7), il delitto è punibile a querela della persona offesa. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso in occasione del delitto previsto dall’articolo 331 ovvero se la persona offesa è incapace, per età o per infermità.
Tutela dei beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche
L’articolo 24, contenuto nel capo III del d.l. n.48 del 2025, introduce modifiche all’articolo 639 c.p., relativo al reato di deturpamento e imbrattamento di cose altrui, potenziando gli strumenti volti a salvaguardare i beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche.
A seguito della modifica del secondo comma dell’articolo 639 c.p., che ove il fatto sia commesso su beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche, con la precipua finalità di “ledere l’onore, il prestigio o il decoro” dell’istituzione alla quale appartengono, si applica la pena della reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi e la multa da 1.000 a 3.000 euro.
Viene quindi introdotta una tutela rafforzata, ed un corrispettivo aggravamento sanzionatorio, rispetto all’ipotesi disciplinata dallo stesso secondo comma e relativa al deturpamento ed imbrattamento di beni immobili o di mezzi di trasporto pubblici o privati, nella quale si applica la pena della reclusione da uno a sei mesi e della multa da 300 a 1.000 euro.
L’intervento legislativo segue alla modifica dell’art.639 c.p. già operata dalla legge n.6 del 2021, che ha previsto specifiche sanzioni – reclusione da 1 a 6 mesi o multa da 300 a 1.000 euro – per coloro che deturpano o imbrattano teche, custodie e altre strutture adibite alla esposizione, protezione e conservazione di beni culturali esposti in musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico.
Viene altresì introdotto un terzo comma dell’art.639 c.p. per cui, nei casi di recidiva per deturpamento e imbrattamento di beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche, si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e della multa fino a 12.000 euro.
Nei casi di recidiva riguardante le ipotesi previste dal primo e dal secondo periodo del secondo comma, si applica invece la pena della reclusione da tre mesi a due anni e della multa fino a 10.000 euro.
- Deturpamento e imbrattamento di cose altrui
Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo 635, deturpa o imbratta cose mobili altrui è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a euro 309.
Se il fatto è commesso su beni immobili o su mezzi di trasporto pubblici o privati, si applica la pena della reclusione da uno a sei mesi o della multa da 300 a 1.000 euro. Se il fatto è commesso su teche, custodie e altre strutture adibite all’esposizione, protezione e conservazione di beni culturali esposti in musei, pinacoteche, gallerie e altri luoghi espositivi dello Stato, delle regioni, degli altri enti pubblici territoriali, nonché di ogni altro ente e istituto pubblico, si applica la pena della reclusione da uno a sei mesi o della multa da 300 a 1.000 euro. Se il fatto è commesso su beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche, con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene, si applicano la reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi e la multa da 1.000 a 3.000 euro.
Nei casi di recidiva per le ipotesi di cui al secondo comma, primo e secondo periodo, si applica la pena della reclusione da tre mesi a due anni e della multa fino a 10.000 euro. Nei casi di recidiva per l’ipotesi di cui al secondo comma, terzo periodo, si applicano la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa fino a 12.000 euro.
Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo 635, deturpa o imbratta cose mobili o immobili altrui in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico è punito con le pene di cui ai commi precedenti, raddoppiate.
Nei casi previsti dal secondo comma si procede d’ufficio.
Con la sentenza di condanna per i reati di cui al secondo e terzo comma il giudice, ai fini di cui all’articolo 165, primo comma, può disporre l’obbligo di ripristino e di ripulitura dei luoghi ovvero, qualora ciò non sia possibile, l’obbligo di sostenerne le spese o di rimborsare quelle a tal fine sostenute, ovvero, se il condannato non si oppone, la prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate nella sentenza di condanna.
Nuova disciplina del blocco stradale e ferroviario
L’articolo 14 modifica la disciplina del blocco stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo, stabilendo che “chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata, ostruendo la stessa con il proprio corpo, è punito con la reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro. La pena è della reclusione da sei mesi a due anni se il fatto è commesso da più persone riunite” (art.1 bis del 22 gennaio 1948 n.66, recante Norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate ed ordinarie e la libera navigazione).
La punizione è a titolo di illecito penale e non più di illecito amministrativo.
Resta invariata la previsione dell’art.1 del citato d.lgs. n.66 del 1948, che sanziona con la reclusione da uno a sei anni il reato di blocco ferroviario ovvero l’illecito commesso da chi, per impedire od ostacolare la libera circolazione, depone o abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ordinaria o ferrata o comunque ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata (comma 1); alla stessa pena è soggetto chi con le stesse modalità commette analogo blocco in una zona portuale o nelle acque di fiumi, canali o laghi, per ostacolare la libera navigazione, o comunque ostruisce o ingombra tali zone (comma 2). La pena è raddoppiata se il fatto è commesso da più persone, anche non riunite, ovvero se è commesso usando violenza o minaccia alle persone o violenza sulle cose (comma 3).
Prima delle modifiche introdotte dal d.l. n.113 del 2018 (c.d. decreto sicurezza), il blocco stradale, diversamente dal blocco di strade ferrate (nonché di porti, fiumi, laghi ecc.), era punito come illecito amministrativo, salvo il caso in cui il fatto costituisse reato in quanto configurante un’interruzione di pubblico servizio (art.340 c.p.); in tale ultima ipotesi, infatti, era già prevista la reclusione fino a un anno (da uno a cinque anni per i promotori o organizzatori).
Il citato d.l. n.113 del 2018 aveva sostanzialmente operato un ritorno al testo dell’art.1 del d.lgs. 66 del 1948, previgente alla depenalizzazione operata dall’art.17 del d.lgs. n.507 del 1999, nei casi di ostruzione o ingombro della circolazione su strada ordinaria e ferrata e di deposizione o abbandono di congegni o altri oggetti, tuttavia prevedendo che l’impedimento alla libera circolazione su una strada ordinaria mediante la sola ostruzione con il proprio corpo costituisse un illecito amministrativo punito con la sanzione pecuniaria da 1.000 a 4.000 euro, con analoga sanzione per promotori e organizzatori.
La norma – si legge nella relazione illustrativa del decreto sicurezza del 2018 – “si rende necessaria al fine di fronteggiare i sempre più frequenti episodi di blocco stradale, posti in essere anche nella forma di assembramento, suscettibili di colpire una pluralità di beni giuridici che comprendono non solo la sicurezza dei trasporti, ma anche la libertà di circolazione”.
L’attuale inasprimento viene a rafforzare la ratio del precedente intervento legislativo, già destinato a trovare applicazione nei casi di manifestazione con corteo ove si verifichino violazioni alle prescrizioni imposte e più nello specifico deviazioni dall’itinerario autorizzato: si pensi ai casi in cui il corteo (o parte di esso) venga indirizzato su strade non previste nell’originario itinerario e a nulla valga la diffida dei funzionari di P.S. agli organizzatori allo scopo di farli desistere.
In questi casi l’iniziativa, “oltre a mettere in grave pericolo l’incolumità fisica degli stessi partecipanti al corteo che vanno a percorrere strade verosimilmente trafficate, senza che risulti possibile predisporre un servizio di viabilità, causa gravi disagi alla circolazione dei veicoli e dei mezzi pubblici di trasporto determinati da blocchi stradali che ostacolano e ostruiscono alcune strade”.
Modifiche in materia di esecuzione della pena nei confronti di detenute madri
L’art.15 co.1 modifica gli artt.146 e 147 c.p. rendendo facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore ad un anno e disponendo che le medesime scontino la pena, qualora non venga disposto il rinvio, presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri. Inoltre è previsto che l’esecuzione non sia rinviabile ove sussista il rischio, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti.
In particolare, la lett.a) modifica l’art.146 c.p., che disciplina i casi di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena:
- abrogando i numeri 1) e 2) del primo comma, ovvero quelli concernenti il differimento obbligatorio della pena per le donne incinte e le madri di infanti di età inferiori a un anno;
- conseguentemente, abrogando il secondo comma, che stabiliva la non applicabilità del rinvio (o la sua revoca qualora fosse stato disposto) nel caso in cui la gravidanza si fosse interrotta, se la madre fosse stata dichiarata decaduta dalla responsabilità genitoriale, il figlio fosse morto, fosse stato abbandonato o affidato ad altri (purché l’interruzione di gravidanza o il parto fossero avvenuti da oltre due mesi).
- Rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena.
L’esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria, è differita:
1) abrogato
2) abrogato
3) se deve aver luogo nei confronti di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’articolo 286-bis, comma 2, del codice di procedura penale, ovvero da altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative.
4) Nel caso preveduto dal numero 2 il provvedimento è revocato, qualora il figlio muoia o sia affidato a persona diversa dalla madre, e il parto sia avvenuto da oltre due mesi.
Gli interventi recati dalla lettera b) riguardano invece l’art.147 c.p., in materia di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena (quindi a discrezione del giudice), nel quale viene integralmente trasposta la disciplina del rinvio dell’esecuzione per le detenute madri. Infatti, ai casi già previsti, riguardanti le madri di figli di età compresa tra 1 e 3 anni, si aggiunge, seppur con alcune differenze, quella riguardante le donne incinte e le detenute madri di figli fino ad un anno di età.
La disciplina introdotta dall’articolo in esame stabilisce pertanto:
- che il rinvio dell’esecuzione di una pena restrittiva della libertà personale sia facoltativo tanto per le donne incinte o per le madri di prole di età inferiore a un anno, quanto per le madri di prole di età inferiore a 3 anni, (numeri 3 e 3-bis del secondo comma dell’art.147 c.p.);
- l’esclusione del rinvio qualora sussista il pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti (nuovo quinto comma dell’art. 147 c.p.).
- che il provvedimento che ha disposto il rinvio sia revocato qualora, durante il periodo di differimento, la madre tenga comportamenti che potrebbero arrecare un grave pregiudizio alla crescita del minore (modifica al terzo comma art. 147 c.p.);
A tale proposito si ricorda che il terzo comma dell’art.147 c.p. già prevede, quali ipotesi di revoca:
- la decadenza della madre dalla responsabilità genitoriale;
- la morte del figlio;
- l’abbandono del figlio;
- l’affidamento del figlio ad altri.
L’unico aspetto che nella nuova disciplina (nuovo quinto comma dell’art.147 c.p.) differenzia il trattamento delle donne incinte/madri di figli di età inferiore ad 1 anno rispetto alle madri di figli di età compresa tra 1 e 3 anni è il luogo dell’esecuzione della pena nel caso in cui l’esecuzione della stessa non sia stata differita a causa di una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti:
- per le donne incinte o madri di figli di età inferiore ad 1 anno la pena dovrà obbligatoriamente essere eseguita presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri (ICAM);
- per le madri di figli di età compresa tra 1 e 3 anni la pena potrà essere eseguita presso un ICAM solo se le esigenze di eccezionale rilevanza lo consentano.
Con riferimento all’obbligo di esecuzione della pena presso un ICAM per le donne incinte o madri di figli di età inferiore ad 1 anno, di cui al nuovo quinto comma dell’art.147 c.p., è stata segnalata l’opportunità di coordinare tale disposizione con quanto previsto dall’art.47-ter dell’ordinamento penitenziario (legge n.345 del 1975) in materia di detenzione domiciliare per le detenute madri; in particolare, andrebbe chiarito se, in attuazione della disposizione in commento, sia preclusa per il giudice la possibilità di disporre la misura della detenzione domiciliare.
Ai sensi di quanto previsto dal co.1, lett.a) del citato art.47-ter, la donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente, può espiare la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, o in case famiglia protette.
Inoltre, il successivo comma 1-ter, prevede che quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt.146 e 147 del codice penale, oggetto di modifica da parte delle disposizioni in commento, il tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di quattro anni, può disporre la detenzione domiciliare, stabilendone un termine di durata, prorogabile.
- Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena.
L’esecuzione di una pena può essere differita:
1) se è presentata domanda di grazia, e l’esecuzione della pena non deve esser differita a norma dell’articolo precedente;
2) se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica;
3) se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita nei confronti di donna incinta o di madre di prole di età inferiore a un anno;
3-bis) se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita nei confronti di madre di prole di età superiore a un anno e inferiore a tre anni.
Nel caso indicato nel numero 1, l’esecuzione della pena non può essere differita per un periodo superiore complessivamente a sei mesi, a decorrere dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, anche se la domanda di grazia è successivamente rinnovata.
Nei casi indicati nei numeri 3) e 3-bis del primo comma il provvedimento è revocato, qualora la madre sia dichiarata decaduta dalla responsabilità genitoriale sul figlio ai sensi dell’articolo 330 del codice civile, il figlio muoia, venga abbandonato o affidato ad altri che alla madre, ovvero quando quest’ultima, durante il periodo di differimento, pone in essere comportamenti che causano un grave pregiudizio alla crescita del minore.
Il provvedimento di cui al primo comma non può essere adottato o, se adottato, è revocato se sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti.
Nei casi indicati nei numeri 3 e 3-bis del primo comma, l’esecuzione della pena non può essere differita se dal rinvio derivi una situazione di pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti. In tale caso, nell’ipotesi di cui al numero 3-bis, l’esecuzione può avere luogo presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri, ove le esigenze di eccezionale rilevanza lo consentano; nell’ipotesi di cui al numero 3, l’esecuzione deve comunque avere luogo presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri.
Il comma 2 introduce nel codice di procedura penale un nuovo art.276-bis, che prevede l’applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di detenuti in istituti a custodia attenuata per detenute madri che:
- evadano o tentino di evadere;
- tengano condotte che compromettano l’ordine o la sicurezza pubblica o dell’istituto stesso.
Il trasferimento in carcere è disposto dal giudice con provvedimento che viene comunicato ai servizi sociali del comune dove si trovano i figli minori del detenuto, in quanto tale trasferimento non implica che gli stessi seguano il genitore nell’istituto penitenziario, fatta salva l’ipotesi in cui sia il loro preminente interesse a richiedere una simile misura. In tal caso, l’istituto deve essere dotato di reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessarie ai minori.
Alla luce delle novelle recate dall’articolo in commento, dunque, la custodia in carcere può essere disposta, al ricorrere delle circostanze indicate da nuovo art.276-bis c.p.p., anche nei confronti di donne incinte o madri di figli di età inferiore ad 1 anno.
I commi da 3 a 7 intervengono su alcuni aspetti relativi alla custodia cautelare presso un ICAM e i relativi adempimenti, anche nei casi di arresto e fermo o di giudizio direttissimo, coordinandone la disciplina con le modifiche apportate alla disciplina dell’esecuzione della pena.
Il comma 3, in particolare, modifica l’art.285-bis c.p.p. con riguardo alle ipotesi in cui possa essere disposta la custodia cautelare presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri.
A tale proposito si ricorda che, ai sensi dell’art.275 comma 4, c.p.p., la custodia cautelare in carcere non è consentita, salvo che ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, nei confronti di:
- donne incinte;
- madri di prole inferiore ai 6 anni;
- padri di prole inferiore ai 6 anni, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.
Analogamente a quanto disposto dal nuovo quinto comma dell’art. 147 c.p. per l’esecuzione della pena, anche per la custodia cautelare viene stabilito un doppio regime in base al quale:
- per le donne incinte o madri di figli di età inferiore ad 1 anno la custodia potrà essere disposta esclusivamente presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri (ICAM);
- per le madri di figli di età compresa tra 1 e 6 anni la custodia potrà essere disposta presso un ICAM solo se le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza lo consentano.
Il comma 4 inserisce due ulteriori commi all’art.293 c.p.p., in materia di adempimenti esecutivi di ordinanza cautelare.
In particolare, i due commi prevedono rispettivamente:
- l’obbligo per l’ufficiale o l’agente incaricato di eseguire l’ordinanza di dare conto, nel verbale delle operazioni svolte, anche del fatto che tale ordinanza riguardi una donna incinta o una madre (o padre) di prole di età inferiore ai 6 anni, ipotesi che, ai sensi dell’art.275 co.4 c.p.p., escludono la custodia cautelare in carcere; in tal caso il verbale viene trasmesso al giudice prima che il soggetto destinatario dell’ordinanza entri nell’istituto di pena (nuovo comma 1-quater);
- conseguentemente, la possibilità per il giudice di sostituire la misura cautelare con una meno grave o di disporre l’esecuzione della custodia presso un ICAM prima dell’ingresso del soggetto nell’istituto di pena (nuovo comma 1-quinquies).
Il comma 5 integra i commi 4 e 5 dell’art.386 c.p.p. con l’aggiunta due periodi volti a specificare che in caso di arresto o fermo:
- qualora l’arrestato o il fermato sia donna incinta o madre di figli di età inferiore ad 1 anno gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria la pongono a disposizione del p.m. conducendola presso un ICAM (co.4);
- qualora l’arrestato o il fermato sia madre di figli di età compresa tra 1 e 3 anni, il p.m. può disporre la custodia presso un ICAM (co.5).
Il primo periodo del comma 5 dell’art.386 c.p.p. stabilisce che il p.m. può disporre la custodia in uno dei luoghi idonei per gli arresti domiciliari ai sensi dell’art.284 co.1 c.p.p. ovvero, se ne possa derivare grave pregiudizio per le indagini, presso altra casa circondariale o mandamentale.
Il comma 6 apporta modifiche alla fase della custodia dell’arrestato in caso di giudizio direttissimo, di cui all’art.558 c.p.p., aggiungendo due periodi finali al co.4-bis al fine di stabilire che, in caso di mancanza o di indisponibilità dei luoghi idonei agli arresti domiciliari di cui all’art.284 co.1 c.p.p. o se gli stessi siano ubicati fuori dal circondario in cui è stato eseguito l’arresto, il pubblico ministero:
- dispone (obbligatoriamente) la custodia presso un ICAM se l’arrestato è donna incinta o madre di figli di età inferiore ad 1 anno;
- può disporre (facoltativamente) la custodia presso un ICAM se l’arrestato è madre di figli di età compresa tra 1 e 3 anni.
Il comma 7 interviene sull’art.678 c.p.p., co.1-bis, nella parte in cui prevede una serie di ipotesi nelle quali il tribunale di sorveglianza può procedere con procedimento semplificato senza formalità ai sensi dell’art.667 co.4 c.p.p. Tra di esse è attualmente compresa quella che dispone il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena nei confronti delle donne incinte e delle madri di figli di età inferiore ad 1 anno, di cui all’art.146, numeri 1) e 2), c.p., previsione abrogata dal comma 1, lett.a), dell’articolo in commento.
Il comma 7, pertanto, opera il necessario coordinamento con la citata disposizione, sopprimendo il riferimento all’ipotesi di rinvio obbligatorio della pena.
In relazione all’intervento di cui al comma 7, nella relazione illustrativa si afferma che “la trasformazione di tali ipotesi di rinvio dell’esecuzione da obbligatorio a facoltativo rende irragionevole il ricorso ad un procedimento semplificato, avuto riguardo alla maggiore complessità della valutazione demandata alla magistratura di sorveglianza”.
Il comma 8 prevede, infine, che il Governo presenti alle Camere una relazione annuale entro il 31 ottobre sull’attuazione delle misure cautelari e dell’esecuzione delle pene non pecuniarie nei confronti delle donne incinte e delle madri di prole di età inferiore a tre anni. Si precisa che la relazione debba essere presentata entro il 31 ottobre.
Le modifiche relative all’uso dei prodotti da infiorescenza della canapa
L’art. 19 apporta novelle alla disciplina relativa al sostegno e alla promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa (cannabis sativa L.) di cui alla legge n.242 del 2016, con la previsione del divieto di importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze della canapa, anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli olii da esse derivati. Si prevede che, in tali ipotesi, si applicano le sanzioni previste al Titolo VIII del d.P.R. n.309 del 1990 in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. Il predetto divieto non ricomprende, tuttavia, la produzione agricola di semi destinati agli usi consentiti dalla legge entro i limiti di contaminazione.
Dette modifiche tendono ad evitare che l’assunzione di prodotti da infiorescenza della canapa possa favorire – mediante alterazioni dello stato psicofisico – l’insorgere di comportamenti che possono porre a rischio la sicurezza o l’incolumità pubblica o la sicurezza stradale.
L’art. 18 co.1 lett. c), novellando l’art.4 co.1 della legge n.242 del 2016 – individua nel Comando unità forestali, ambientali e agroalimentari Carabinieri (e non più nel Corpo forestale dello Stato) l’organo autorizzato ad effettuare i necessari controlli, compresi i prelevamenti e le analisi di laboratorio, sulle coltivazioni di canapa.
Le nuove misure a tutela delle Forze di Polizia
Il capo III del d.l. n.48 del 2025 introduce misure a tutela del personale delle Forze di Polizia, delle Forze Armate e del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, nonché degli organismi di cui alla legge 3 agosto 2007 n.124.
a) Le modifiche al codice penale in materia di violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale
L’articolo 19 reca una serie di modifiche al codice penale concernenti i delitti di “violenza o minaccia a un pubblico ufficiale” (art.336 c.p.) e di “resistenza a un pubblico ufficiale” (art. 337 c.p.), con la previsione di una circostanza aggravante se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza e di un’ulteriore circostanza aggravante all’art.339 c.p., qualora i delitti di cui agli artt.336, 337 e 338 c.p (quest’ultimo rubricato “violenza o minaccia a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”, sono commessi al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici.
In particolare, il co.1 lett. a) modifica l’art.336 c.p. (Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale), che punisce con la reclusione da 6 mesi a 5 anni chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell’ufficio o del servizio (comma 1).
Una prima circostanza aggravante è prevista qualora il fatto venga commesso dal genitore esercente la responsabilità genitoriale o dal tutore dell’alunno nei confronti di un dirigente scolastico o di un membro del personale docente, educativo, amministrativo, tecnico o ausiliario della scuola: n questo caso la pena è aumentata sino alla metà (comma 2).
La pena è, invece, della reclusione fino a 3 anni se il fatto è commesso per costringere il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di esso (comma 3).
Resta ferma la causa di non punibilità di cui all’art.393 bis c.p. qualora il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abbia dato causa al fatto eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni.
La disposizione in commento aggiunge all’art.336 c.p. un comma, volto a prevedere l’aumento della pena fino alla metà, se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza.
Art.336 c.p. Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale.
Chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell’ufficio o del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso dal genitore esercente la responsabilità genitoriale o dal tutore dell’alunno nei confronti di un dirigente scolastico o di un membro del personale docente, educativo, amministrativo, tecnico o ausiliario della scuola
La pena è della reclusione fino a tre anni, se il fatto è commesso per costringere alcuna delle persone di cui al primo e al secondo comma a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa.
Nelle ipotesi di cui al primo e al terzo comma, se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, la pena è aumentata fino alla metà.
Simmetricamente, il comma 1, lett.b) modifica l’art.337 c.p. (Resistenza a un pubblico ufficiale) aggiungendo un’aggravante analoga. Detto articolo sanziona con la reclusione da 6 mesi a 5 anni chiunque usa la violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza.
La pena è ora aumentata fino alla metà se il fatto ex art.337 c.p. è commesso per opporsi a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza mentre compie un atto di ufficio.
Si tratta di una circostanza aggravante a effetto speciale, in quanto l’aumento della pena è previsto fino alla metà (anziché nella misura fino a un terzo prevista dall’art.64 co.1 c.p. per le circostanze aggravanti a effetto comune).
Art.337 c.p. Resistenza a un pubblico ufficiale.
Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale, o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto d’ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
Se la violenza o minaccia è posta in essere per opporsi a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza mentre compie un atto di ufficio, la pena è aumentata fino alla metà.
L’art.19 co.1 lett.c), aggiunge un comma all’art.339 c.p. in materia di circostanze aggravanti dei delitti di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, resistenza a un pubblico ufficiale e violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti.
Detta norma prevede, al primo comma, che le pene per i predetti delitti siano aumentate se il fatto è commesso nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero con armi o da persona travisata o da più persone riunite, o con scritto anonimo o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o supposte.
Il secondo comma stabilisce che qualora il fatto sia commesso da più di cinque persone riunite mediante l’uso di armi anche soltanto da parte di una di esse, o da più di dieci persone, pur senza armi, si applichi la pena della reclusione da 3 a 15 anni, ovvero da 2 a 8 anni nell’ipotesi di cui all’art. 336, secondo comma.
Il terzo comma prevede che l’aggravante di cui al secondo comma si applichi anche nel caso in cui la violenza o la minaccia sia commessa mediante il lancio di corpi contundenti o altri oggetti atti ad offendere, compresi gli artifici pirotecnici, in modo da creare pericolo alle persone.
La nuova circostanza aggravante comporta un aumento di pena anche se la violenza o la minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici. Si tratta di una circostanza aggravante ad effetto comune, con aumento della pena fino a un terzo (art.64 co.1 c.p.).
Art.339 c.p. Circostanze aggravanti.
Le pene stabilite nei tre articoli precedenti sono aumentate se la violenza o la minaccia è commessa nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico ovvero con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte.
Quando la condotta di cui al primo comma è posta in essere nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, si applica la reclusione fino a due anni.
Se la violenza o la minaccia è commessa da più di cinque persone riunite, mediante uso di armi anche soltanto da parte di una di esse, ovvero da più di dieci persone, pur senza uso di armi, la pena è, nei casi preveduti dalla prima parte dell’articolo 336 e dagli articoli 337 e 338, della reclusione da tre a quindici anni e, nel caso preveduto dal capoverso dell’articolo 336, della reclusione da due a otto anni.
Le disposizioni di cui al secondo comma si applicano anche, salvo che il fatto costituisca più grave reato, nel caso in cui la violenza o la minaccia sia commessa mediante il lancio o l’utilizzo di corpi contundenti o altri oggetti atti ad offendere, compresi gli artifici pirotecnici, in modo da creare pericolo alle persone.
Le disposizioni del primo comma si applicano anche se la violenza o la minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici.
b) Le modifiche in materia di lesioni personali a pubblico ufficiale
L’art. 20 modifica l’art.583-quater c.p., ora rubricato “Lesioni personali a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, nonché a personale esercente una professione sanitaria o sociosanitaria e a chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali”, introducendo la nuova fattispecie di reato di lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni (più ampia di quella originariamente circoscritta alle lesioni personali in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive), punita con la reclusione:
- da 2 a 5 anni nel caso di lesioni semplici (fattispecie in precedenza ricompresa nella disposizione generale di cui all’art.582 c.p.);
- da 4 a 10 anni nel caso di lesioni gravi;
- da 8 a 16 anni nel caso di lesioni gravissime.
Art.583 quater c.p. – Lesioni personali a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, nonché a personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria e a chiunque svolga attività ausiliarie ad essa funzionali.
Nell’ipotesi di lesioni personali cagionate a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, le lesioni gravi sono punite con la reclusione da quattro a dieci anni; le lesioni gravissime, con la reclusione da otto a sedici anni.
Nell’ipotesi di lesioni cagionate al personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria nell’esercizio o a causa delle funzioni o del servizio, nonché a chiunque svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso, funzionali allo svolgimento di dette professioni e servizi di sicurezza complementare in conformità alla legislazione vigente, nell’esercizio o a causa di tali attività, si applica la reclusione da due a cinque anni. In caso di lesioni personali gravi o gravissime si applicano le pene di cui al comma primo.
Ai sensi dell’art.583 codice penale la lesione personale è grave se dal fatto deriva pericolo di vita o l’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore a 40 giorni o l’indebolimento permanente di un senso o di un organo; è gravissima se dal fatto deriva un malattia probabilmente o certamente insanabile, la perdita di un senso, la perdita di un arto o la mutilazione di un arto che lo renda inservibile, la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare o una permanente e grave difficoltà della favella.
c) Rafforzamento della sicurezza negli istituti penitenziari
L’ art. 26, modificando alcune disposizioni del codice penale, introduce un’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi, applicabile se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute; introduce, altresì, il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, di cui al nuovo art.415-bis del codice penale.
In particolare, la lettera a) del comma 1 aggiunge all’art.415 c.p., che punisce con la reclusione da 6 mesi a 5 anni l’istigazione alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all’odio fra le classi sociali, un’aggravante che comporta l’aumento della pena fino ad un terzo se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute
Art.415 c.p. Istigazione a disobbedire alle leggi.
Chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all’odio fra le classi sociali, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario ovvero a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute.
La lett.b) introduce il nuovo art.415-bis, rubricato “Rivolta all’interno di un istituto penitenziario”.
Le condotta che integra la fattispecie di reato ivi prevista (primo comma) è quella di partecipazione ad una rivolta, mediante:
- atti di violenza o minaccia;
- resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza.
Come evidenziato dalla Relazione illustrativa, quest’ultima specificazione è diretta ad escludere che assuma rilevanza “ogni tipo di ordine impartito (quale per esempio quelli attinenti alla pulizia e all’igiene della persona o della camera, che rilevano invece sul piano disciplinare)”.
Ai fini dell’integrazione del nuovo reato, tali condotte devono essere poste in essere da tre o più persone riunite.
La disposizione in esame qualifica, inoltre, espressamente le condotte di resistenza passiva, quali le condotte che impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza, tenendo conto del numero delle persone coinvolte e del contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio. La pena base è la reclusione da 1 a 5 anni.
Il secondo comma del nuovo art.415-bis c.p. punisce, altresì, punisce le condotte di promozione, organizzazione o direzione della rivolta, con la reclusione da 2 a 8 anni. Inoltre, sono previste alcune aggravanti che comportano un aumentano della pena:
- la partecipazione alla rivolta con uso di armi è punita con la reclusione da 2 a 6 anni; l’aver promosso, organizzato o diretto la rivolta con uso di armi è punito con la reclusione da 3 a 10 anni (terzo comma);
- se dal fatto deriva, non volutamente, una lesione personale grave o gravissima la pena è della reclusione da 2 a 6 anni per chi ha partecipato alla rivolta, da 4 a 12 anni per chi ha promosso, organizzato o diretto la rivolta (quarto comma);
- se dal fatto deriva, non volutamente, la morte, la pena è della reclusione da 7 a 15 anni per chi ha partecipato alla rivolta, da 10 a 18 anni per chi ha promosso, organizzato o diretto la rivolta (quarto comma).
Nel caso di lesioni gravi o gravissime o morte di più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata fino al triplo; la pena della reclusione non può comunque essere superiore a 20 anni.
Art.415-bis. Rivolta all’interno di un istituto penitenziario
Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, commessi da tre o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Ai fini del periodo precedente, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.
Coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta sono puniti con la reclusione da due a otto anni.
Se il fatto è commesso con l’uso di armi, la pena è della reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal primo comma e da tre a dieci anni nei casi previsti dal secondo comma.
Se dal fatto deriva, quale conseguenza non voluta, una lesione personale grave o gravissima, la pena è della reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal primo comma e da quattro a dodici anni nei casi previsti dal secondo comma; se, quale conseguenza non voluta, ne deriva la morte, la pena è della reclusione da sette a quindici anni nei casi previsti dal primo comma e da dieci a diciotto anni nei casi previsti dal secondo comma.
Nel caso di lesioni gravi o gravissime o morte di più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata fino al triplo, ma la pena della reclusione non può superare gli anni venti.
Ai sensi dell’art.41-bis co.1 della legge sull’ordinamento penitenziario, la rivolta costituisce una situazione di emergenza in cui è consentito al Ministro della giustizia di sospendere l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati nell’istituto interessato o in parte di esso. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto.
d) Sicurezza delle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti e semplificazione delle procedure per la loro realizzazione
L’ art. 27 introduce un nuovo reato finalizzato a reprimere gli episodi di proteste violente da parte di gruppi di stranieri irregolari trattenuti nei centri di trattenimento per i migranti. Si prevede, inoltre, l’estensione della disciplina speciale relativa alla realizzazione dei centri di permanenza per i rimpatri, anche alle procedure per la localizzazione e per l’ampliamento e il ripristino dei centri esistenti.
Più nel dettaglio il comma 1, novellando l’art.14 del d.lgs. n.286 del 1998, introduce, il nuovo comma 7.1 che punisce con la pena della reclusione da uno a quattro anni chiunque – durante il trattenimento in un centro di permanenza per i rimpatri o in una delle strutture di cui all’art.10-ter del d.lgs. n.286 del 1998 – mediante atti di violenza o minaccia o mediante atti di resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, posti in essere da tre o più persone riunite, partecipa a una rivolta. La disposizione in esame specifica quali siano le condotte di resistenza passiva: si tratta delle condotte che impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza, con riferimento al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio.
Coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta sono puniti con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni. Se il fatto è commesso con l’uso di armi, la pena è della reclusione da uno a cinque anni nei casi previsti dal primo periodo e da due a sette anni nei casi previsti dal terzo periodo. Se dal fatto deriva, quale conseguenza non voluta, una lesione personale grave o gravissima, la pena è della reclusione da due a sei anni nei casi previsti dal primo periodo e da quattro a dodici anni nei casi previsti dal terzo periodo; se, quale conseguenza non voluta, ne deriva la morte, la pena è della reclusione da sette a quindici anni nei casi previsti dal primo periodo e da dieci a diciotto anni nei casi previsti dal terzo periodo.
Nel caso di lesioni gravi o gravissime o morte di più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave, aumentata fino al triplo, ma la pena della reclusione non può superare gli anni venti
Rispetto al testo esaminato dalle Camere AS 1236-A, il nuovo reato non trova più applicazione con riguardo ai fatti commessi in uno dei centri di cui agli articoli 9 (centri governativi di accoglienza) e 11 (strutture temporanee di accoglienza) del d.lgs. 18 agosto 2015 n.142 ovvero in una delle strutture di cui all’art.1-sexies del d.l. 30 dicembre 1989 n.416 (in tema servizi di accoglienza prestati dagli enti locali ai titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati). È espunto, inoltre, dalla rubrica il riferimento alle strutture di accoglienza.
La disposizione del decreto-legge precisa, dunque, che hanno rilievo gli atti di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti unicamente (il disegno di legge, invece, faceva generico riferimento agli ordini impartiti) per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio. Sono state soppresse, infine, le modifiche di coordinamento, apportate al co.7-bis dell’art.14 del d.lgs. n.286 del 1998.
Quanto alla semplificazione delle procedure per la realizzazione dei centri di permanenza per i rimpatri, è resa possibile la deroga (fino al 31 dicembre 2025) ad ogni disposizione di legge ad eccezione della legge penale e del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione. nel rispetto dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione europea.
Tale disciplina viene estesa anche alle procedure per la localizzazione e per l’ampliamento e il ripristino dei centri esistenti.
e) Le modifiche relative all’uso dei dispositivi di videosorveglianza
L’ art. 21 consente alle Forze di polizia di utilizzare dispositivi di videosorveglianza indossabili nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio, di vigilanza di siti sensibili, nonché in ambito ferroviario e a bordo treno.
Si tratta di una facoltà, non di un obbligo generalizzato, né viene esplicitato a chi competa la scelta in merito all’utilizzo di tali dispositivi.
L’art.23 del d.P.R. n.15 del 2018, (“Regolamento a norma dell’articolo 57 del decreto legislativo 30 giugno 2003 n.196, recante l’individuazione delle modalità di attuazione dei principi del Codice in materia di protezione dei dati personali relativamente al trattamento dei dati effettuato, per le finalità di polizia, da organi, uffici e comandi di polizia”), già prevede che l’utilizzo di sistemi di ripresa fotografica, video e audio “per le finalità di polizia di cui all’articolo 3, è consentito ove necessario per documentare: una specifica attività preventiva o repressiva di fatti di reato, situazioni dalle quali possano derivare minacce per l’ordine e la sicurezza pubblica o un pericolo per la vita e l’incolumità dell’operatore, o specifiche attività poste in essere durante il servizio che siano espressione di poteri autoritativi degli organi, uffici e comandi di polizia”.
Il Garante per la protezione dei dati personali, con i provvedimenti n. 290 e n. 291 del 22 luglio 2021, ha espresso parere favorevole alle valutazioni di impatto sulla protezione dei dati personali, presentate dal Dipartimento della pubblica sicurezza e dal Comando generale dell’Arma dei Carabinieri relativamente all’utilizzo dei dispositivi di videosorveglianza indossabili.
Tali pareri erano stati emessi con alcune precisazioni. In particolare, si era tenuto anche conto del fatto che le videocamere indossabili in uso al personale dei reparti mobili potevano essere attivate solo allorquando sussistessero fatti di reato ovvero concrete situazioni di pericolo di turbamento dell’ordine pubblico. Non era ammessa la registrazione continua delle immagini, né quella di episodi non critici.
Il Garante aveva, inoltre, ritenuto ragionevole il periodo di sei mesi di conservazione dei dati, prospettato nelle valutazioni di impatto presentate, e ritenuto rispettato il principio di privacy by default (protezione per impostazione predefinita), essendo stata prevista la loro cancellazione automatica trascorso tale termine. L’Autorità non aveva invece considerato possibile dotare tali dispositivi di un sistema volto all’identificazione univoca o al riconoscimento facciale della persona.
Il comma 2 dispone che possono essere utilizzati dispositivi di videosorveglianza nei luoghi e negli ambienti in cui vengono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale. Differentemente dal primo comma, non ci si riferisce esclusivamente ai dispositivi indossabili, bensì si utilizza una formulazione più ampia, idonea a ricomprendere sia questi ultimi che altra strumentazione atta allo scopo (quindi sia portatile che fissa).
Il riferimento ai luoghi e agli ambienti in cui vengono “trattenute” le persone sottoposte a restrizione della libertà personale potrebbe quindi ricomprendere anche le misure cc.dd. pre-cautelari, ossia quelle limitative della libertà personale aventi natura anticipatoria e strumentale di una misura cautelare (arresto in flagranza ex artt.380 ss. c.p. e fermo ex art.384 c.p.p.), soggette a convalida da parte del giudice per le indagini preliminari ex art.391 c.p.p..
Va approfondita l’applicabilità della norma anche al trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza per i rimpatri (CPR) di cui all’art.14 co.1. d.lgs. n.286 del 1998 che, in quanto, misura limitativa della libertà personale, è soggetta alle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione.
Il comma 3 reca la quantificazione degli oneri derivanti dalle disposizioni del presente articolo. Il comma 4 individua le relative fonti di copertura finanziaria.
f) Benefici economici per le spese legali sostenute da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza
L’art. 22 reca disposizioni concernenti il riconoscimento di un beneficio economico a fronte delle spese legali sostenute da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, nonché dai vigili del fuoco, indagati o imputati nei procedimenti riguardanti fatti inerenti al servizio svolto.
Possono accedere al beneficio anche il coniuge, il convivente di fatto e i figli del dipendente deceduto.
Il beneficio è riconosciuto a decorrere dal 2025 e non può superare complessivamente l’importo di 10.000 euro per ciascuna fase del procedimento. È fatta salva la rivalsa delle somme corrisposte in caso di accertamento della responsabilità con dolo del beneficiario. Sono comunque previsti alcuni casi di esclusione della rivalsa con riferimento alle somme anticipate.
Le somme sono attribuite compatibilmente con le disponibilità di bilancio dell’amministrazione di appartenenza e salvo rivalsa in caso di accertamento della responsabilità del dipendente a titolo di dolo.
La disciplina in esame si applica anche al personale convenuto in giudizi per responsabilità civile ed amministrativa previsti dalle disposizioni sopra illustrate (comma 3).
Non si procede alla rivalsa delle somme anticipate quando:
- le indagini preliminari si siano concluse con un provvedimento di archiviazione;
- sia stata emessa sentenza di non luogo a procedere (art.425 c.p.p.) in sede di udienza preliminare;
- sia stata emessa sentenza di proscioglimento prima del dibattimento (art.469 c.p.p.);
- sia stata emessa sentenza di proscioglimento in caso immediata declaratoria di non punibilità (art.129 c.p.p.), in caso di sentenza di non doversi procedere (art.529 c.p.p.), assoluzione (nei casi di cui all’art.530 c.p.p. co.2 e 3), e in caso di dichiarazione di estinzione del reato (art.531 c.p.p.), anche se la sentenza è intervenuta successivamente a sentenza o altro provvedimento che abbia escluso la responsabilità penale del dipendente, salvo che per i fatti contestati in sede penale sia stata accertata la responsabilità per grave negligenza in sede disciplinare.
Il comma 4 autorizza la spesa per l’attuazione delle disposizioni in commento nel limite di 860.000 euro annui a decorrere dall’anno 2025.
g) Disposizioni per la tutela legale del personale delle Forze armate
L’art. 23 reca disposizioni concernenti il riconoscimento di un beneficio economico a fronte delle spese legali sostenute personale delle Forze armate, indagato o imputato per fatti inerenti al servizio, nonché al coniuge, al convivente di fatto di e ai figli superstiti del dipendente deceduto. Il beneficio è riconosciuto a decorrere dal 2025. Tale beneficio non può superare complessivamente l’importo di 10.000 euro per ciascuna fase del procedimento. È fatta salva la rivalsa delle somme corrisposte in caso di accertamento della responsabilità con dolo del beneficiario. Sono comunque previsti alcuni casi di esclusione della rivalsa con riferimento alle somme anticipate. La disposizione reca altresì un’autorizzazione di spesa nel limite di 120.000 euro a decorrere dal 2025 e provvede alla copertura degli oneri.
h) Inosservanza delle prescrizioni impartite dal personale che svolge servizi di polizia stradale
L’art. 25 reca un inasprimento sanzionatorio delle previsioni dell’art.192 Codice della strada (C.d.S.), con particolare riguardo ai casi di inosservanza dell’obbligo di fermarsi intimato dal personale che svolge servizi di polizia stradale, nonché delle altre prescrizioni impartite dal personale medesimo.
In particolare, nelle ipotesi di violazione degli obblighi di cui ai commi 2, 3 e 5 dell’art.192 C.d.S. la sanzione amministrativa è ora ricompresa da 100 a 400 euro in luogo dei precedenti limiti (da 87 a 344 euro).
Nel caso di inosservanza dell’invito a fermarsi, ove il fatto non costituisca reato, è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 200 ad euro 600 (a fronte della medesima sanzione pecuniaria sopra indicata). Si prevede altresì che, in caso di reiterazione della violazione nel biennio, si applichi anche la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da 15 a 30 giorni.
Per l’inosservanza delle previsioni di cui al co.4 dello stesso art.192 C.d.S. si prevede, ove il fatto non costituisca reato, la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.500 ad euro 6.000. In questa ipotesi, oggettivamente più grave delle precedenti, si stabilisce che all’accertamento della violazione consegua la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da tre mesi a un anno.
Viene altresì ritoccata la tabella dei punteggi prevista dall’art.126 bis C.d.S. , al duplice scopo di adeguarla alla nuova articolazione delle condotte e di graduare la decurtazione alla nuova valutazione di gravità delle stesse: per le violazioni di cui al co.6 sono comminati 3 punti di sanzioni; per le violazioni di cui al co.6-bis, primo periodo, sono comminati 5 punti; per il co.6-bis, secondo periodo, vengono comminati 10 punti di sanzione; per le violazioni di cui al co.7, infine, 10 punti di sanzione.
i) Licenza, detenzione e porto di armi per gli agenti di pubblica sicurezza non in servizio
L’ art. 28 autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza alcune tipologie di armi quando non sono in servizio.
A tal fine, il comma 1 precisa che si tratta degli agenti di pubblica sicurezza di cui agli artt.17 e 18 TULPS (testo unico 18 giugno 1931 n.773 delle leggi di pubblica sicurezza) ovvero del personale delle Forze di polizia (Carabinieri, agenti della Polizia di Stato, della Guardia di finanza e del Corpo della Polizia penitenziaria).
Sebbene alcune norme specifiche riconoscono anche al personale di altri corpi la qualifica di agente di pubblica sicurezza, quali ad esempio gli appartenenti alla polizia municipale (art.5 della legge n.65 del 1986, dalla formulazione della norma, che compie un rinvio specifico agli articoli richiamati e non in termini generali “gli agenti di pubblica sicurezza”, sembra potersi desumere che l’ambito di applicazione della disposizione in esame riguardi esclusivamente il personale delle citate Forze di polizia e non quello di ulteriori corpi cui sia attribuita la qualifica di agente di pubblica sicurezza.
Le armi che gli agenti di pubblica sicurezza sono autorizzati a detenere senza licenza sono quelle di cui all’art.42 TULPS e cioè arma lunga da fuoco, rivoltella e pistola di qualunque misura, bastoni animati con lama di lunghezza inferiore ai 65 centimetri.
La normativa attualmente vigente in materia di porto d’armi senza licenza per gli agenti di pubblica sicurezza è quella di cui all’art.73 Regolamento del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (regio decreto 6 maggio 1940 n.635), recante l’approvazione del regolamento di esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza). Ai sensi di tale articolo il porto d’armi senza licenza, attribuito comunque soltanto ai fini della difesa personale, è consentito ai seguenti soggetti:
- al Capo della Polizia, ai Prefetti, ai Viceprefetti, agli Ispettori provinciali amministrativi, agli ufficiali di Pubblica sicurezza, ai pretori e ai magistrati addetti al Pubblico ministero o all’ufficio di istruzione, relativamente alle armi di cui all’articolo 42 del TULPS, e dunque a qualunque arma lunga da fuoco, alle rivoltelle e alle pistole di qualunque misura, nonché ai bastoni animati con lama di lunghezza inferiore ai 65 centimetri;
- agli agenti di pubblica sicurezza di cui agli articoli 17 e 18 del testo unico della legge sugli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 31 agosto 1907, n. 690, relativamente alle sole armi di cui sono muniti, e cioè quelle in dotazione ufficiale, a termini dei rispettivi regolamenti;
- agli altri agenti di pubblica sicurezza, ai quali tale qualifica sia riconosciuta dal Ministro dell’interno o dal Prefetto, ai sensi dell’articolo 43 del testo unico della legge sugli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto 31 agosto 1907, n. 690, o di altre disposizioni speciali, relativamente alle armi di cui sono muniti, soltanto durante il servizio o per recarsi al luogo ove esercitano le proprie mansioni e farne ritorno.
La disposizione in commento consente, quindi, agli agenti di pubblica sicurezza sopra richiamati di portare senza licenza non solo le armi di dotazione ma anche altre armi rientranti nelle categorie di cui all’art.42 Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (T. U.L.P.S).
Il comma 2 autorizza il Governo ad apportare le necessarie modifiche al richiamato art.73 del regolamento di esecuzione del T.U.L.P.S. con regolamento di delegificazione ai sensi dell’art.17 co.2 della legge n.400 del 1988.
l) Tutela delle funzioni istituzionali del Corpo della guardia di finanza svolte in mare e modifiche agli artt.1099 e 1100 del codice della navigazione
L’art. 29 prevede, al co.1, che le disposizioni degli artt.5 e 6 della legge 13 dicembre 1956 n.1409, che sono attualmente applicabili alle sole fattispecie di vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi, siano applicabili anche quando le unità del naviglio della Guardia di finanza siano impiegate nell’esercizio delle funzioni istituzionali a esse attribuite dalla normativa vigente. Si tratta delle norme in base alle quali:
- il comandante della nave nazionale che non obbedisce alla intimazione di fermo di una unità del naviglio della Guardia di finanza è punito con le pene stabilite dall’articolo 1099 del Codice della navigazione, che prevede la reclusione fino a 2 anni (articolo 5);
- il capitano della nave nazionale che commette atti di resistenza o di violenza contro una unità di naviglio della Guardia di finanza è punito con le pene stabilite dall’articolo 1100 del Codice della navigazione, cioè con la reclusione da tre a dieci anni (articolo 6).
Tali disposizioni si applicano, nel rispetto delle norme internazionali, anche quando le condotte sono poste in essere dal comandante di una nave straniera.
Il comma 2 novella gli artt.1099 e 1100 del codice della navigazione, disponendo rispettivamente che:
- alla medesima pena prevista dall’art.1099 cod. nav., cioè la reclusione fino a 2 anni, debba soggiacere il comandante della nave straniera che non obbedisce all’ordine di una nave da guerra nazionale, quando, nei casi consentiti dalle norme internazionali, quest’ultima procede a visita e a ispezione delle carte e dei documenti di bordo;
- la reclusione da tre a dieci anni prevista al primo periodo dell’art.1100 cod. nav. si applichi anche alle navi straniere per gli atti compiuti contro una nave da guerra nazionale impiegata nello svolgimento, in conformità alle norme internazionali, dei relativi compiti.
Si ricorda incidentalmente che ai sensi dell’art.1080 cod. nav. le disposizioni penali contenute nel medesimo codice si applicano al cittadino o allo straniero al servizio di una nave o di un aeromobile nazionale. Il medesimo articolo stabilisce che le predette disposizioni penali non si applichino ai componenti dell’equipaggio e ai passeggeri di nave o di aeromobile stranieri, salvo che sia diversamente stabilito.
Quanto agli articoli del codice della navigazione oggetto della disposizione in commento, l’art.1099 (Rifiuto di obbedienza a nave da guerra) richiama l’art. 200 cod. nav. che attribuisce compiti di polizia, comprendenti la visita e l’ispezione delle carte e dei documenti di bordo, alle navi da guerra italiane nei confronti delle navi mercantili nazionali, in alto mare, nel mare territoriale e nei porti esteri dove non vi sia un’autorità consolare italiana o su richiesta della medesima.
L’art.1100 cod. nav. (Resistenza o violenza contro nave da guerra) nel testo attualmente vigente punisce con la reclusione da tre a dieci anni il comandante o l’ufficiale della nave che commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale. La pena per i concorrenti è ridotta da un terzo alla metà.
A livello internazionale, l’art.29 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Convenzione di Montego Bay) definisce quale “nave da guerra” una nave che appartenga alle forze armate di uno Stato, che porti i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità e sia posta sotto il comando di un ufficiale di Marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio sia sottoposto alle regole della disciplina militare. La medesima definizione di nave da guerra è contenuta a livello nazionale nell’art.239 co.2 del codice dell’ordinamento militare di cui al decreto legislativo n.66 del 2010. Il comma 3 della medesima disposizione specifica che la nave da guerra costituisce parte del territorio dello Stato.
L’art.243 specifica che le unità navali in dotazione all’Esercito italiano, all’Aeronautica militare, all’Arma dei carabinieri, al Corpo della Guardia di finanza e al Corpo delle capitanerie di porto sono iscritte in ruoli speciali del naviglio militare dello Stato.
Le modifiche tengono conto delle funzioni svolte nel settore marittimo dalla Guardia di finanza, ossia:
- vigilanza in mare per fini di polizia finanziaria e concorso ai servizi di polizia marittima, assistenza e segnalazione (art.1 della legge n.189 del 1959);
- concorso, anche con il proprio naviglio, alla difesa politico-militare delle frontiere e, in caso di guerra, alle operazioni militari (art.1 e 4 co.3 della legge n.189 del 1959 e art.98 del D.P.R. n.90 del 2010);
- sicurezza del mare in via esclusiva – in relazione ai compiti di polizia, garantendo il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica in tale ambiente geografico – ivi compresa l’attività di prevenzione e contrasto dell’immigrazione irregolare (d.lgs. n.177 del 2016 e D.M. Interno 14 luglio 2003);
- polizia economica e finanziaria in mare, in via esclusiva, nonché di contrasto dei traffici illeciti (art.2 co.3 del d.lgs. n.68 del 2001).
m) Tutela del personale delle Forze armate che partecipa a missioni internazionali
L’articolo 30 è finalizzato alla tutela delle Forze armate impegnate in missioni internazionali, e a tale scopo integra le disposizioni penali applicabili al personale partecipante e di supporto alle missioni, per prevedere la non punibilità dell’utilizzo di dispositivi e programmi informatici o altri mezzi idonei a commettere delitti contro l’inviolabilità del domicilio e dei segreti, ai sensi del Codice penale.
Più in dettaglio, la norma integra l’art.19 della legge quadro sulle missioni internazionali (legge n.145 del 2016), che contiene disposizioni in materia penale applicabili al personale che partecipa alle missioni internazionali, nonché al personale inviato in supporto alle medesime missioni.
Il comma 3, primo periodo – su cui interviene la norma in esame – prevede la non punibilità per il personale che, nel corso delle missioni internazionali, in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio ovvero agli ordini legittimamente impartiti, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi, della forza o di altro mezzo di coazione fisica, per le necessità delle operazioni militari. A tali fattispecie, viene aggiunto l’uso “di apparecchiature, dispositivi, programmi, apparati, strumenti informatici o altri mezzi idonei a commettere taluno dei delitti di cui alla sezione IV e alla sezione V del capo III del titolo XII del codice penale”.
Le norme penali in questione riguardano la violazione del domicilio, della corrispondenza e delle comunicazioni, le illegittime interferenze nella vita privata nonché la violazione dei segreti.
Si tratta, nello specifico, dei seguenti delitti:
- violazione di domicilio (art. 614);
- violazione di domicilio commessa da un pubblico ufficiale (art.615);
- interferenze illecite nella vita privata attraverso l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora (art.615-bis);
- accesso abusivo a un sistema informatico (art.615-ter);
- detenzione, diffusione e installazione abusiva di apparecchiature, codici e altri mezzi atti all’accesso a sistemi informatici o telematici (art.615-quater);
- detenzione, diffusione e installazione abusiva di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico (art.615 quinquies);
- violazione, sottrazione o soppressione di corrispondenza (art.616); cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche (art.617);
- detenzione, diffusione e installazione abusiva di apparecchiature e di altri mezzi atti a intercettare, impedire o interrompere comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche (art.617-bis);
- falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche (art.617-ter);
- intercettazione, impedimento o interruzione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche (art.617-quater);
- detenzione, diffusione e installazione abusiva di apparecchiature e di altri mezzi atti a intercettare, impedire o interrompere comunicazioni informatiche o telematiche (art.617-quinquies);
- falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni informatiche o telematiche (art.617sexies);
- diffusione di riprese e registrazioni fraudolente (art.617-septies);
- rivelazione del contenuto di corrispondenza (art.618);
- violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza commesse da un addetto ai servizi postale, telegrafico o telefonico (art.619);
- rivelazione del contenuto di corrispondenza, commessa da un addetto ai servizi postale, telegrafico o telefonico (art.620);
- rivelazione del contenuto di documenti segreti (art.621);
- rivelazione di segreto professionale (art.622);
- rivelazione di segreti scientifici o commerciali (art. 623), altre comunicazioni e conversazioni (art.623-bis).
Si ricorda che l’articolo 19 della legge quadro prevede che
- quando, nel commettere uno dei fatti previsti dal primo periodo del comma 3, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge, dalle direttive, dalle regole di ingaggio o dagli ordini legittimamente impartiti, ovvero imposti dalla necessità delle operazioni militari, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi se il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo (comma 3, secondo periodo, dell’articolo 19);
- il comma 3 non si applica in nessun caso ai crimini previsti dagli articoli 5 e seguenti dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, adottato a Roma il 17 luglio 1998, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999 n.232. Si tratta del crimine di genocidio, dei crimini contro l’umanità, dei crimini di guerra e del crimine di aggressione, di competenza della Corte penale internazionale (comma 4 dell’articolo 19).
n) Potenziamento dell’attività di informazione per la sicurezza
L’art. 31 rende permanenti le disposizioni introdotte, in via transitoria, dal d.l. n.7 del 2015 (e, per effetto di successive proroghe, vigenti fino al 30 giugno 2025), per il potenziamento dell’attività dei servizi di informazione per la sicurezza, in materia di:
- estensione delle condotte di reato scriminabili, che possono compiere gli operatori dei servizi di informazione per finalità istituzionali su autorizzazione del Presidente del Consiglio dei ministri, a ulteriori fattispecie concernenti reati associativi per finalità di terrorismo, sebbene per tali condotte non sia opponibile il segreto di Stato di cui all’art.39 co.11 della legge sui servizi di informazione (legge n.124 del 2007). Detto articolo esclude che possono essere oggetto di segreto di Stato notizie, documenti o cose relativi a fatti di terrorismo o eversivi dell’ordine costituzionale o a fatti costituenti i delitti di devastazione, saccheggio e strage, associazione mafiosa, scambio elettorale politico-mafioso.
In base al decreto-legge n. 7 del 2015 le ulteriori condotte-reato previste dal codice penale per le quali, in presenza di autorizzazione, opera la suddetta scriminante, in via temporanea e, in base al presente provvedimento in via permanente, sono le seguenti:
- partecipazione ad associazioni sovversive (art.270 co.2 c.p.);
- assistenza agli associati (art.270 ter c.p.);
- arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale (art.270 quater c.p.);
- organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo (art.270 quater.1 c.p.);
- addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale (art.270 quinquies c.p.);
- finanziamento di condotte con finalità di terrorismo (art.270 quinques.1 c.p.);
- istigazione a commettere uno dei delitti contro la personalità interna o internazionale dello Stato (art.302 c.p.);
- partecipazione a banda armata (art.306 co.2 c.p.);
- istigazione a commettere delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità o apologia degli stessi delitti (art.414 co.4 c.p.).
La disposizione in esame, oltre a mettere a regime le fattispecie di cui sopra, aggiunge le seguenti ulteriori condotte-reato:
- direzione e organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico (art.270-bis co.1 c.p., il quale punisce anche l’ipotesi della promozione, costituzione e finanziamento di associazioni con finalità di terrorismo ma la disposizione in commento specifica che la scriminante vale solo per le ipotesi di direzione ed organizzazione);
- detenzione di materiale con finalità di terrorismo (art.270 quinquies.3 c.p.), introdotto dall’art.1 del provvedimento in commento;
- fabbricazione, acquisto o detenzione di materie esplodenti al fine di attentare alla pubblica incolumità (art.435 co.1 c.p.);
- distribuzione, divulgazione, diffusione e pubblicizzazione di materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso delle materie esplodenti nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di delitti non colposi contro la personalità dello Stato (art.435 co.2 c.p., introdotto dall’articolo 1 del provvedimento in esame).
Quindi, mentre per le associazioni sovversive rientrano tra le condotte-reato per le quali vale la scriminante solo la partecipazione all’associazione di cui all’art.270 co.2 c.p., per le associazioni con finalità di terrorismo rientrano tra tali condotte oltre alla partecipazione (art.270-bis co.2 c.p.) anche la direzione e organizzazione (art.270-bis co.1 c. p.).
- attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza con funzioni di polizia di prevenzione al personale delle Forze armate adibito alla tutela delle strutture e del personale del Dipartimento per le informazioni per la sicurezza (DIS) o dei servizi di informazione per la sicurezza (AISI e AISE). L’attribuzione può avvenire, specifica la disposizione, con le modalità previste dall’art.23 co.2 della legge n.124 del 2007 vale a dire dal Presidente del Consiglio per non oltre un anno, su proposta del direttore generale del DIS, AISI e AISE
- tutela processuale in favore degli operatori degli organismi di informazione per la sicurezza, attraverso l’utilizzo di identità di copertura negli atti dei procedimenti penali e nelle deposizioni;
- possibilità di condurre colloqui con detenuti e internati, per finalità di acquisizione informativa per la prevenzione di delitti con finalità terroristica di matrice internazionale. L’autorizzazione a tali colloqui investigativi è rilasciata dal Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, in presenza di specifici e concreti elementi informativi che rendano assolutamente indispensabile l’attività di prevenzione (art.4 co.2-ter del d.l. n.144 del 2005). Dello svolgimento dei colloqui è data comunicazione scritta entro il termine di cinque giorni al Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma. Inoltre, le autorizzazioni ai colloqui e le successive comunicazioni sono annotate in un registro riservato presso l’ufficio del procuratore generale. Devono essere informati dello svolgimento dei colloqui anche il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo e, a conclusione delle operazioni, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (art.4 co.2-quater del d.l. n.144 del 2005); il termine è di cinque giorni. Il personale dei servizi di informazione ha l’obbligo di denunciare fatti costituenti reato ai rispettivi direttori i quali, senza ritardo, informano il Presidente del Consiglio, o l’Autorità delegata, ove istituita. A loro volta, i direttori dei servizi di informazione per la sicurezza e il direttore generale del DIS hanno l’obbligo di fornire ai competenti organi di polizia giudiziaria le informazioni e gli elementi di prova relativamente a fatti configurabili come reati, di cui sia stata acquisita conoscenza nell’ambito delle strutture che da essi dipendono. L’adempimento di tale obbligo può essere ritardato, su autorizzazione del Presidente del Consiglio, quando ciò sia strettamente necessario al perseguimento delle finalità istituzionali del Sistema di informazione per la sicurezza (art.23 co.6, 7 e 8 della legge n.124 del 2007, richiamati dall’art.4, co.2-quinques del d.l. n.144 del 2005). Gli elementi acquisiti attraverso le richiamate attività per lo sviluppo della ricerca informativa non possono essere utilizzati nel procedimento penale. In ogni caso, le attività di intercettazione di cui ai commi da 1 a 4 e le notizie acquisite a seguito delle attività medesime non possono essere menzionate in atti di indagine né costituire oggetto di deposizione né essere altrimenti divulgate.
Vengono introdotte nuove disposizioni, sempre riguardanti l’attività informativa, concernenti:
- la previsione di ulteriori condotte di reato per finalità informative, scriminabili, concernenti la direzione o l’organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico e la detenzione di materiale con finalità di terrorismo (reato quest’ultimo introdotto dall’art.1 del provvedimento), la fabbricazione o detenzione di materie esplodenti;
- la possibilità di richiedere informazioni e analisi finanziarie alla Guardia di finanza e alla D.I.A. per il contrasto al terrorismo internazionale.
L’art.17 della legge n.124 del 2007 esclude che possano essere autorizzate condotte dirette a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone (comma 2) e altre condotte particolarmente gravi (comma 3), quali, ad esempio, attentato contro organi costituzionali o contro i diritti politici.
Inoltre, non possono essere autorizzate, condotte previste dalla legge come reato per le quali non è opponibile il segreto di Stato ai sensi dell’art.39 co.11 della legge n.124 del 2007, con le sole eccezioni della partecipazione all’associazione con finalità di terrorismo anche internazionale (art.270-bis, 2° comma, c.p.) e dell’associazione mafiosa (art. 416-bis, 1° comma, c.p.). Solo per le condotte relative ai due reati da ultimo citati opera la speciale causa di giustificazione – prevista dallo stesso art. 17, comma 1, della legge 124/2007 – secondo cui non è punibile il personale dei servizi di informazione per la sicurezza che ponga in essere condotte previste dalla legge come reato, legittimamente autorizzate di volta in volta in quanto indispensabili alle finalità istituzionali di tali servizi.
E’ ora prevista la possibilità per AISI e AISE di richiedere le informazioni e le analisi finanziarie connesse al terrorismo, al fine di prevenire ogni forma di aggressione terroristica di matrice internazionale.
Viene così integrato il comma 1 dell’art.14 del d.lgs. n.186 del 2021, che prevede che Forze di polizia, condividono tempestivamente, secondo modalità definite d’intesa, le informazioni finanziarie e le analisi finanziarie.
o) Disposizioni in materia di forniture di servizi di telefonia mobile
L’ art. 32 modifica l’art.30 del codice delle comunicazioni elettroniche (d.lgs. n.259 del 2003) e prevede la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni per i casi nei quali le imprese autorizzate a vendere schede S.I.M non osservino gli obblighi di identificazione dei clienti, di cui all’art.98-undetricies, a sua volta modificato con riferimento alla conclusione di contratti il cui oggetto sia un servizio per la telefonia mobile (contratti pre-pagati o in abbonamento): viene previsto, infatti, che al cliente, che sia cittadino di Paese fuori dall’Unione europea, sia richiesto il documento che attesti il regolare soggiorno in Italia, o del passaporto o documenti di viaggio equipollenti o documenti di riconoscimento che siano in corso di validità. Per il caso in cui il cliente lo abbia smarrito o gli sia stato sottratto, è necessario fornire copia della denuncia di smarrimento o furto.
Infine, al citato art. 98-undetricies viene aggiunto il comma 1-ter, ai sensi del quale ai condannati per il reato di sostituzione di persona (art.494 c.p.), commesso con la finalità di sottoscrivere un contratto per la fornitura di telefonia mobile, si applica altresì la pena accessoria dell’incapacità di contrarre con gli operatori per un tempo da fissarsi tra i sei mesi e i due anni.
Disposizioni per le vittime dell’usura
L’art. 33 istituisce un albo di esperti che affianchino gli operatori economici vittime di usura ai fini del reinserimento nel circuito economico legale, stabilendo altresì le norme fondamentali che disciplinano compiti, incompatibilità e decadenza, durata dell’incarico e compenso dei suddetti esperti.
L’articolo in commento interviene sulla legge 7 marzo 1996 n.108, che detta disposizioni in materia di usura, inserendo un nuovo articolo, il 14-bis, che disciplina la figura dell’esperto chiamato a sostegno del soggetto vittima di usura che ha beneficiato dell’erogazione del mutuo previsto dall’art.14 della medesima legge n.108 per il suo reinserimento nell’ambito dell’economia legale.
Come chiarito dalla relazione illustrativa, l’introduzione di tale previsione si rende necessaria al fine di attenuare l’alta morosità riscontrata, soprattutto negli ultimi anni, nella restituzione dei suddetti mutui, “come evidenziato anche dalla Corte dei conti, nelle deliberazioni di competenza, in esito alle indagini sulla gestione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle vittime estorsive e dell’usura”.
In particolare, l’esperto, che svolge funzioni di consulenza e di assistenza, deve garantire un efficiente utilizzo delle risorse economiche assegnate ed è iscritto, a richiesta, nell’apposito albo istituito ai sensi del comma 2, purché ne abbia i requisiti. La norma precisa, altresì, che le vittime del delitto di usura si avvalgono della consulenza dell’esperto dal momento della concessione del mutuo (comma 1).
Il citato albo (comma 2) è istituito presso l’Ufficio del Commissario straordinario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura e ad esso possono fare richiesta di iscrizione: revisori legali, esperti contabili, avvocati e commercialisti regolarmente iscritti ai rispettivi ordini professionali, nonché soggetti dotati di specifiche competenze nell’attività economica svolta dalla vittima del delitto di usura e nella gestione di impresa.
La richiesta di iscrizione deve essere corredata da una dichiarazione, sottoscritta dall’interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritta e presentata unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore ai sensi dell’art.38 del D.P.R. n.445 del 2000, che escluda la sussistenza, in capo al dichiarante, delle cause di divieto, sospensione o decadenza di cui all’art.67 del codice delle leggi antimafia (comma 3).
L’incarico di esperto è conferito dal prefetto della provincia nel cui ambito ha sede l’ufficio giudiziario che procede per il reato di usura ovvero della provincia ove ha sede legale o residenza il beneficiario (comma 4) e del conferimento viene data tempestiva comunicazione alla società CONSAP – Concessionaria servizi assicurativi pubblici Spa (comma 5), anche al fine della segnalazione al prefetto e all’ordine professionale al quale l’esperto risulti iscritto di eventuali violazioni ai suoi doveri da parte della stessa CONSAP (comma 14).
All’atto del conferimento dell’incarico all’esperto, le somme erogate attraverso i mutui di cui all’articolo 14 confluiscono in un patrimonio autonomo e separato costituito all’esclusivo scopo di rilancio dell’attività dell’operatore economico vittima del delitto di usura (comma 6). Nel caso in cui emerga, anche tramite segnalazione dell’esperto, che l’attività svolta con l’utilizzo delle risorse assegnate non realizzi le predette finalità di reinserimento nel circuito dell’economia legale, i relativi provvedimenti di assegnazione dei benefìci possono essere revocati, con recupero delle somme erogate (comma 7).
L’esperto, a pena di decadenza, deve attestare di non trovarsi in situazioni di incompatibilità o di conflitto di interessi e deve svolgere con diligenza una serie di compiti, puntualmente indicati al comma 8, che vanno dal supporto per i progetti di capitalizzazione e per le attività di gestione del mutuo erogato, al sostegno alla vittima dell’usura in qualsivoglia azione indirizzata alla ripresa della sua attività economica, alla presentazione del rendiconto di gestione (con cadenza periodica e ogni volta che il prefetto lo richieda) e di una relazione annuale sul proprio operato al prefetto, all’ufficio del Commissario straordinario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura e alla società CONSAP Spa,. Nel caso voglia farsi coadiuvare da altri soggetti qualificati, l’esperto deve farne richiesta al prefetto che gli ha conferito l’incarico (comma 8).
All’esperto si applicano, quali cause di incompatibilità, le cause di ineleggibilità e decadenza stabilite dal primo comma dell’articolo 2399 c.c. per i sindaci di società per azioni (comma 9); egli inoltre è tenuto alla riservatezza sui fatti e sui documenti di cui ha conoscenza in ragione delle sue funzioni, adempie ai suoi doveri con la diligenza del mandatario e risponde della veridicità della relazione annuale (comma 10).
La durata dell’incarico è fissata in 5 anni ed è rinnovabile per una sola volta; sono sempre possibili le dimissioni volontarie dall’incarico, da comunicare, con preavviso di almeno 45 giorni, al prefetto e alla società CONSAP Spa (comma 11).
L’incarico è revocabile dal prefetto, ai sensi dell’articolo 1723, primo comma, c.c. nonché, con atto motivato del prefetto, in caso di azioni od omissioni contrarie al corretto esercizio dei compiti di cui al comma 8 che, qualora accertate, danno luogo alla cancellazione dell’esperto dall’albo e alla nomina di un nuovo esperto per garantire la continuità nello svolgimento dell’attività di supporto (comma 13).
L’esperto e il beneficiario possono chiedere di essere ascoltati dal prefetto o da un suo delegato in caso di dissenso, di situazioni di particolare gravità e urgenza, di mancato rispetto degli impegni assunti con il piano di investimento (comma 12).
Il compenso spettante all’esperto è corrisposto annualmente, a seguito della presentazione della relazione annuale a cura del medesimo, a valere sulle risorse del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive, dell’usura e dei reati intenzionali violenti nonché agli orfani per crimini domestici, senza alcuna decurtazione della somma erogata alla vittima del delitto di usura (comma 15).
Ad un apposito regolamento, adottato con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con i Ministri della giustizia e dell’economia e delle finanze, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della disposizione, è demandata la normativa di dettaglio circa i requisiti per l’iscrizione all’albo nonché per la tenuta e la gestione del medesimo, il limite al numero di incarichi ricopribili, le modalità di conferimento secondo criteri di trasparenza e con il rispetto del principio di rotazione degli incarichi, la determinazione del compenso minimo e massimo, anche in relazione all’ammontare del beneficio concesso alla vittima di usura, da aggiornare ogni tre anni nonché le modalità per l’audizione, da parte del prefetto, dell’esperto o del beneficiario ai sensi del comma 12 (comma 16).
Disposizioni sull’ordinamento penitenziario
L’art. 34 reca modifiche all’ordinamento penitenziario volte a:
- ricomprendere l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi e il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario nel catalogo dei reati per i quali la concessione di benefici penitenziari è subordinata alla mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva;
- istituire un termine di 60 giorni entro cui l’amministrazione penitenziaria deve esprimersi nel merito sulle proposte di convenzione relative allo svolgimento di attività lavorative da parte di detenuti ricevute.
L’art. 35 consente la concessione dei benefici previsti dalla legge n.193 del 2000 a favore delle aziende pubbliche o private che impieghino detenuti anche per il lavoro svolto all’esterno degli istituti penitenziari.
L’articolo 36 estende la possibilità di assumere in apprendistato professionalizzante anche i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e i detenuti assegnati al lavoro all’esterno.
L’apprendistato professionalizzante (art. 44 del d.lgs. n.81 del 2015) è una delle tre tipologie di apprendistato attualmente previste (insieme all’apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore e a quello di alta formazione e ricerca).
E’ previsto in tutti i settori di attività, per i giovani tra i 18 (17 per i soggetti in possesso di una qualifica professionale, conseguita ai sensi della normativa vigente, ex d.lgs. n.226 del 2005) e i 29 anni (23 per i lavoratori sportivi), ed è finalizzato ad apprendere un mestiere o una professione in ambiente di lavoro. La durata non può essere superiore a tre anni ovvero cinque per i profili professionali caratterizzanti la figura dell’artigiano individuati dalla contrattazione collettiva di riferimento. Per i datori di lavoro che svolgono la propria attività in cicli stagionali, i CCNL possono prevedere specifiche modalità di svolgimento del contratto di apprendistato, anche a tempo determinato. I CCNL, inoltre, stabiliscono, in ragione del tipo di qualificazione professionale ai fini contrattuali da conseguire, la durata e le modalità di erogazione della formazione per l’acquisizione delle relative competenze tecnico-professionali e specialistiche, nonché la durata anche minima del periodo di apprendistato, che non può essere superiore a tre anni ovvero cinque per i profili professionali caratterizzanti la figura dell’artigiano individuati dalla contrattazione collettiva di riferimento.
La formazione di tipo professionalizzante, svolta sotto la responsabilità del datore di lavoro, è integrata, nei limiti delle risorse annualmente disponibili, dalla offerta formativa pubblica, interna o esterna alla azienda, finalizzata alla acquisizione di competenze di base e trasversali per un monte complessivo non superiore a centoventi ore per la durata del triennio
L’articolo 37 autorizza il Governo ad apportare modifiche al regolamento di cui al D.P.R. n.230 del 2000 (norme sull’ordinamento penitenziario), in materia di organizzazione del lavoro dei soggetti sottoposti al trattamento penitenziario, sulla base dei criteri esplicitamente indicati.
Nello specifico, il Governo dovrà modificare – con regolamento da adottare entro 12 mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n.48 del 2025 – le norme che disciplinano l’organizzazione del lavoro dei soggetti sottoposti al trattamento penitenziario, sulla base di specifici criteri:
valorizzare il principio di sussidiarietà orizzontale, attuando iniziative di promozione del lavoro dei soggetti sottoposti al trattamento penitenziario e incoraggiando l’interazione con l’iniziativa economica privata, comprese le organizzazioni non lucrative;
- semplificare le relazioni tra le imprese e le strutture carcerarie al fine di favorire l’interazione tra i datori di lavoro privati e la direzione carceraria;
- prevedere che l’amministrazione penitenziaria abbia la possibilità di apprestare, in relazione ad attività aventi spiccata valenza sociale, modelli organizzativi di co-gestione, privi di rapporti sinallagmatici;
- riconoscere ai fini curriculari e della relativa formazione professionale le prestazioni lavorative svolte dai soggetti detenuti o internati;
- favorire l’accoglimento delle commesse di lavoro provenienti da soggetti privati;
- valorizzare la collaborazione con gli organismi di vertice di diversi ordini professionali (Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, Consiglio nazionale forense) nonché con il CNEL e con il Garante nazionale dei detenuti, al fine di diffondere la conoscenza delle iniziative legislative e amministrative volte a incentivare il reinserimento lavorativo dei detenuti.
Si ricorda che l’art.20 della legge n.354 del 1975 (c.d. Ordinamento penitenziario), prevede, tra l’altro, che negli istituti penitenziari debbano essere favorite la destinazione dei detenuti al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale (comma 1). A tal fine, possono essere organizzati e gestiti, all’interno e all’esterno dell’istituto, lavorazioni e servizi attraverso l’impiego di prestazioni lavorative dei detenuti. Possono essere istituite lavorazioni organizzate e gestite direttamente da enti pubblici o privati e corsi di formazione professionale organizzati e svolti da enti pubblici o privati. Viene in particolare specificato che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato (comma 2). Inoltre, si prevede che l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale (comma 3).
Il d.P.R. n.230 del 2000, in attuazione della citata disposizione, al capo III, prevede diverse norme riguardanti l’organizzazione del lavoro dei detenuti (artt.47 e ss.).
In particolare, l’art.47 (organizzazione del lavoro) prevede che le lavorazioni penitenziarie, sia all’interno sia all’esterno degli istituti penitenziari, possono essere organizzate e gestite:
- dalle direzioni degli istituti, secondo le linee programmatiche determinate dai provveditorati;
- da imprese pubbliche e private e, in particolare, da imprese cooperative sociali, in locali concessi in comodato dalle direzioni.
Inoltre, i rapporti fra la direzione e le imprese sono definiti con convenzioni.
I detenuti che prestano la propria opera in tali lavorazioni, dipendono, quanto al rapporto di lavoro, direttamente dalle imprese che le gestiscono. I datori di lavoro sono tenuti a versare alla direzione dell’istituto la retribuzione dovuta al lavoratore (comma 1).
Le lavorazioni interne dell’istituto sono possibilmente organizzate in locali esterni alle sezioni detentive (comma 2).
Le citate convenzioni, particolarmente quelle con cooperative sociali, possono anche avere ad oggetto servizi interni, come quello di somministrazione del vitto, di pulizia e di manutenzione dei fabbricati (comma 3).
Le amministrazioni penitenziarie devono, di regola, utilizzare le lavorazioni penitenziarie per le forniture di vestiario e corredo, nonché per le forniture di arredi e quant’altro necessario negli istituti (comma 4). La relativa produzione è destinata a soddisfare, nell’ordine, le commesse dell’amministrazione penitenziaria, delle altre amministrazioni statali, di enti pubblici e di privati (comma 5). Sulla distribuzione delle commesse di lavoro delle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici è competente il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, invece le direzioni possono accogliere direttamente le commesse di lavoro provenienti dai privati (comma 6). Può essere convenuto con committente che materie prime e accessorie, attrezzature e personale tecnico siano fornite dal medesimo (comma 7).
Inoltre, è previsto che se le commesse non sono sufficienti in rapporto alla capacità di mano d’opera delle lavorazioni penitenziarie, l’amministrazione può organizzare e gestire lavorazioni dirette alla produzione di determinati beni, che vengono offerti in libera vendita anche a mezzo di imprese pubbliche (comma 8).
Le direzioni degli istituti penitenziari, per favorire la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro, possono anche vendere i prodotti delle lavorazioni penitenziarie a prezzo pari o anche inferiore al loro costo (comma 9).
I posti di lavoro, a disposizione della popolazione detenuta di ciascun istituto, sono fissati in un’apposita tabella predisposta dalla direzione e distinta tra lavorazioni interne, lavorazioni esterne, servizi di istituto (co.10). Infine è previsto che negli istituti per minorenni è data particolare attenzione all’organizzazione delle attività lavorative per la formazione professionale (co.11).
L’art.42 del d.P.R. n.230 del 2000 prevede che gli istituti penitenziari favoriscano la partecipazione dei detenuti a corsi di formazione professionale, in base alle esigenze della popolazione detenuta alle richieste del mercato del lavoro, promuovendo accordi con la regione e gli enti locali.
dott. Carlo Pasquariello